Certi treni nella vita passano una volta sola e allora non importa come li prendi: bisogna saltarci su. Roberta Vinci a 32 anni e mezzo non avrebbe avuto un'altra occasione, un altro viaggio per arrivare là dove non era mai riuscita ad approdare. E così, contro la francesce Mladenovic, una che ha una vita davanti, doveva farcela. E ce l'ha fatta. Roberta dunque è in una semifinale di uno Slam, un premio alla carriera, lei nata doppista e finita per essere campionessa in singolare, addirittura numero 11 nel 2013 e numero 1 del mondo in coppia con la Errani in quel sodalizio finito per chissà che cosa e che avuto la sublimazione a Wimbledon 2014, quando Errani-Vinci completarono il loro personale Grande Slam. Dall'altra parte della rete anche allora c'era (con la Babos) la Mladenovic, guarda caso. E caso vuole che Sara, ieri, fosse in campo nello stesso momento storico con la Pennetta in un match che ha portato le due in semifinale del torneo di doppio. Ma forse non è un caso che Roberta si sia goduta il momento da sola, dopo un match estenuante e - eufemismo - bruttino: «Ma era per tutte due la partita della vita».
La partita, appunto, si diceva: «Ero molto tesa all'inizio, non è facile giocare un match così. Mi sono concentrata sull'essere aggressiva, eravamo tutte e due molto nervose e molto stanche e il lungo game sul 3-3 nel terzo set in cui alla fine ho fatto il break alla fine ha deciso tutto. Sono felice e molto calma, in fondo con Sara ho vinto 5 Slam in doppio e so cosa si prova». Soprattutto Roberta sa come si gioca a tennis, più delle ragazze d'oggi a senso unico: così più la Mladenovic spingeva, più lei l'ha fatta finire fuorigiri e nemmeno il medical timeout chiamato dalla rivale nel secondo set (poi vinto dalla francese) ha sparigliato le carte. È dunque finita 6-3, 5-7, 6-4, perché - come ha detto Flavia Pennetta - «nell'era del tennis bum bum bum, c'è ancora qualcuno che sa metterti in difficoltà con l'intelligenza. Ad esempio Roberta». Che alla fine sapeva che avrebbe avuto da pensare a una delle Williams (che si sono incontrate stanotte) e che ora può tifare proprio Pennetta, volata nei quarti dopo il successo contro la Stosur.
Per lei è la sesta volta negli ultimi sette anni e non può essere un caso. È più che altro una dichiarazione d'amore per New York, perché «è una questione di odore, di ambiente, della vitalità che questa città ti trasmette. Intendiamoci: qui non ci vivrei mai, ma per giocare a tennis a settembre è il massimo». Insomma: il 6-4, 6-4 a Samantha è l'ennesima porta sul paradiso della Grande Mela, «e quello che sento qui mi capita solo in un altro posto: Acapulco». Dove magari vivere è un po' meglio, ma si sa che la casa di una campionessa è il mondo. E il mondo non è tutto uguale.
Sarà per questo che la carriera di Flavia è stata un'altalena, anche se sempre ad alto livello: spesso tra le prime, a volte tra le primissime, in certi casi fenomenale. Com'è successo contro la Stosur, «la mia miglior partita dell'anno». Un altro treno acchiappato al volo, perché a volte capita: «Questione di sensazioni, di giorni in cui va tutto bene. Come si riesce? Semplice: sforzandoti di andare ad allenarti al mattino anche quando vorresti stare sotto le coperte». Ora c'è la Kvitova, mancina, pericolosa.
«Ma io mi alleno tutti i giorni contro un mancino. Il problema è un altro: io l'ho già battuta, ma lei adesso è proprio forte, più forte di me». Però c'è di mezzo New York e Flavia. E con quel sorriso lì, Flavia a New York è proprio un amore.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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