Lo «springsteenismo» ha quasi quarant’anni E un discepolo è più vecchio del maestro

Eddai che il segreto è poi questo: Bruce Springsteen suona il rock delle radici, quello muscoloso e svestito che spiega com’era e come cambia la provincia americana. Perciò Springsteen non può essere unico: i nuovi discepoli sono giovanissimi, per carità, ma gli altri sono suoi coetanei. Lui è diventato il più famoso di tutti perché, come conferma anche Louis Masur nel libro che celebra i 35 anni dell’album Born to run (Runaway dream - Arcana, in uscita il 25 agosto) il Boss ha sempre ragionato così: «La data di uscita è fissata in un giorno solo. Ma il disco è per sempre». Perciò tutti gli altri che suonano alla sua maniera ma non sempre al suo livello sono stati considerati giocoforza «springsteeniani» pur senza esserlo del tutto, calamitati impietosamente nell’orbita dell’unico capace di essere sempre come fosse appena born, cioè nato, ma di continuare a run, a correre, pubblicando dischi buoni e meno buoni, alcuni capolavori e qualche scivolone però senza deludere mai fino in fondo. Da almeno trent’anni John Mellencamp, che una volta era anche Cougar ma adesso basta, e Tom Petty, che ha appena pubblicato l’ottimo Mojo, sono crocefissi al paragone. Qualcuno, come il rassegnato Ryan Adams dopo qualche album ha tirato giù la saracinesca scrivendo sul blog: «Lascio la musica, potrei tornare ma non ne sono affatto certo». Invece altri sono autentici springsteeniani nello spirito: e continuano a suonare ovunque e comunque. Come John Eddie, onestissimo. E Steve Earle, arrabbiatissimo.

E Willie Nile, un sessantaduenne ossuto che a settembre il sessantenne Springsteen ha voluto con sé nella bolgia del Giants Stadium di East Rutherford, il tempio dello springsteenismo, il luogo dove tra il più famoso e tutti gli altri le differenze spariscono perché il rock, quel rock lì, alla fine è uno solo.

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