«Staccare la spina? Io non sono Dio»

I familiari lo vanno a trovare tutti i giorni, nella stanza al primo piano di un padiglione bianco e silenzioso dell’ospedale Sheba di Tel Hashomer, nel centro d’Israele. Ariel Sharon, l’ex premier, il generale considerato un mito in patria, il controverso leader politico e militare molto amato o molto odiato, è in persistente stato di coma vegetativo dal gennaio del 2006, quando fu colpito da un’emorragia cerebrale e subì un intervento che non poté evitargli «un enorme danno al cervello», spiega al Giornale il direttore generale della struttura sanitaria in cui si trova Sharon, Zeev Rotstein. È in uno stato di «minima coscienza», racconta, un caso diverso da quello di Eluana Englaro: l’ex premier israeliano respira da solo, è alimentato artificialmente ma reagisce ad alcuni stimoli, «una voce, una parola, una mano appoggiata sulla sua, apre e chiude gli occhi». Pochi mesi dopo l’operazione, Sharon è stato trasferito dall’ospedale Hadassah, sulle belle colline che circondano Gerusalemme, a un reparto di terapia intensiva e riabilitazione respiratoria per pazienti a lunga degenza dello Sheba, storica struttura nata nel 1948, nel giorno della dichiarazione d’indipendenza d’Israele, come ospedale da campo nella guerra appena scoppiata tra arabi e il nuovo Stato. Il trasferimento ha suggerito ai mass-media nazionali e internazionali, avidi di dettagli sul suo stato di salute, che le speranze dei medici in un suo risveglio andavano affievolendosi.
Quali sono al momento le condizioni cliniche di Ariel Sharon?
«Sharon è in uno stato definito di minima coscienza. L’ex primo ministro ha avuto un’emorragia cerebrale nel 2006 e poi è stato sottoposto a un’operazione che non ha potuto evitare un danno enorme al cervello. Sharon può reagire ad alcuni stimoli come una voce, una parola, il tocco di una mano sulla sua e muove gli occhi. Non più di questo. Può respirare da solo, anche se a volte riceve un po’ di aiuto attraverso una mascherina. È alimentato attraverso un tubo nasogastrico. È un caso diverso dalla ragazza italiana».
È una situazione molto difficile per una famiglia. Come ha reagito quella di Sharon?
«È una difficoltà enorme perché ci sono pazienti come Sharon che vanno avanti così per anni, qui ce ne sono alcuni in questo stato anche da venti anni. I familiari vengono quasi ogni giorno e passano molto tempo assieme a lui, sono molto uniti».
E sono ottimisti?
«La famiglia, i due figli, Omri e Gilad, credono che lui possa andare avanti e ritengono che reagisca ogni giorno di più agli stimoli. Sono sicuri che lui stia migliorando».
C’è mai stato un dibattito in Israele su un caso simile?
«No. Ci arrivano molte lettere che ci chiedono di Sharon, vogliono sapere perché investire energia in un caso simile. Non capiscono e non conoscono la situazione clinica. Noi sappiamo che è un malato che vive, reagisce. Questi pazienti vivono a un livello di minima attività e noi come medici non possiamo fare nulla, non possiamo chiudere il tubo, non siamo Dio. C’è dibattito solamente nel caso in cui è certificata la morte cerebrale ma il cuore batte ancora».
Cosa succede allora?
«In Israele, secondo la legge, quando si diagnostica la morte cerebrale in un paziente, è subito formata un’équipe di tre medici estranei al caso. Si tratta di specialisti che devono certificare la morte del cervello.

Soltanto allora è possibile staccare la spina. In questo caso il dibattito esiste: gli ebrei religiosi, ultraortodossi, si oppongono a questo processo e all’utilizzo degli organi del paziente per trapianti, credono ci sia ancora una speranza».

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