Politica

Lo starnuto di Pyongyang

Un tempo si diceva che quando l'America starnutiva, il mondo rischiava la polmonite. Oggi quando la Corea del Nord esplode una «piccola» carica nucleare sottoterra, il mondo trema, Usa e Israele inclusi, nonostante il loro potenziale atomico. Anzitutto perché entrambi hanno perduto in Irak e in Libano buona parte del loro deterrente politico e militare. In secondo luogo perché i loro vantati servizi di informazione si sono lasciati prendere come ebbe a dire un ex ministro della difesa israeliano (nei confronti degli hezbollah) dalla creazione di uno schieramento offensivo «sotto il proprio naso». La Corea del Nord che a confronto dell'Iran appare come un Paese economicamente e ideologicamente «straccione» si è trasformata in un minaccioso e apparentemente intoccabile drago proprio grazie alla collaborazione fra il regime spericolato, aggressivo e internamente malsicuro di Pyongyang e quello non meno spericolato, aggressivo e internamente insicuro di Teheran. Quale giornale ha ritenuto doveroso dar spazio alla notizia, che il 4 luglio scorso la Corea ha sparato uno dopo l'altro sette missili di varia gittata fra cui uno di tipo Taepodong-2, capace di essere armato con una testata atomica miniaturizzata? Questa carica nucleare è esattamente del tipo di quella - debole hanno detto gli esperti - fatta esplodere tre giorni fa in barba a tutti gli avvertimenti dell'Onu e delle grandi potenze, Cina inclusa. Quello che tutti hanno ignorato è che questi lanci «perfettamente riusciti» - come quello del missile balistico intercontinentale lanciato nel Mar del Giappone e che tanto rumore aveva fatto - sono avvenuti alla presenza di ufficiali e tecnici delle Guardie Rivoluzionarie iraniane e sono stati interamente pagati da Teheran. Gli iraniani erano esultanti perché se lo scopo della Corea del Nord era essenzialmente quello di obbligare gli Stati Uniti a trattare con lei, quello dell'Iran era di avere subito a disposizione una carica nucleare atta ad essere inserita sui suoi missili a lunga e forse - persino - a media gittata. Quelli, cioè, dati in dotazione agli hezbollah nel Libano ma non usati per bombardare - come lo sceicco Nasrallah aveva promesso - Tel Aviv perché tenuti sotto chiave dagli specialisti iraniani per essere probabilmente usati in circostanze politiche e militari più importanti.
Non c'è dunque da meravigliarsi se martedì scorso il premier israeliano Olmert ha deciso di convocare una riunione ai massimi livelli per discutere di quello che ha definito «il grande pericolo alla stabilità mondiale (provocato) dal disseminare armi nucleari fra Stati non-democratici e fondamentalisti». Disseminazione del resto ufficialmente confermata da Pyongyang che dopo aver venduto alla Siria e all'Iran la tecnologia per azionare i missili Skud ha affermato di «non aver esitazioni» nel trasferire «tecnologia, materiale e armi nucleari ad altri Paesi».
Di fronte a questa situazione le conversazioni delle «sei potenze» asiatiche per contenere lo sviluppo nucleare coreano sono arenate; come lo sono le conversazioni degli europei a Ginevra per contenere lo sviluppo nucleare iraniano e quelle al Consiglio di sicurezza dell'Onu per contenere la proliferazione nucleare.
La chiave diplomatica della situazione è ora in mano alla Russia che più della Cina esita a imporre sanzioni tanto alla Corea che all'Iran. Se non la usa, di concerto con le altre grandi potenze, le possibilità che la parola passi alle armi crescerà.

A credere e dire «che non c'è nulla di più pericoloso dell'uso dell'arma atomica, se non il suo possesso da parte dell'Iran» non sarà solo più il senatore repubblicano McCain.

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