Gli Stati Uniti contro il Pakistan: «Organizza attentati a Kabul»

La Cia: i servizi segreti di Islamabad dietro l’attacco all’ambasciata indiana

L’amministrazione Bush, ormai agli sgoccioli, sembra risoluta ad affrontare uno scontro con quello che, fino allo scorso anno, era considerato uno dei suoi alleati più fedeli: il Pakistan. Dopo un duro faccia a faccia lunedì scorso tra il presidente e il premier di Islamabad, Yusuf Raza Gilani, per via della sua insufficiente cooperazione nella lotta al terrorismo islamista, Washington ha ieri accusato senza mezzi termini elementi dell’Isi, il servizio segreto pakistano, di avere contribuito a organizzare l’attentato suicida contro l’ambasciata indiana a Kabul, che il mese scorso ha fatto una cinquantina di vittime. La Cia ha raccolto le prove che l’Isi ha stabilito un accordo di collaborazione con Maulawi Haqqani, un potente signore della guerra afghano distintosi nella lotta contro l’invasore sovietico negli anni ’80, ma che non ha mai riconosciuto la legittimità del governo filo-occidentale di Karzai e ora ha stretti legami operativi con Al Qaida. Secondo il dossier preparato dai servizi americani, gli 007 pakistani (non si sa quanto «deviati» e quanto invece diretti dalle loro autorità) si servirebbero di Haqqani per rifornire i talebani di armi e munizioni e cercare di destabilizzare il Paese.
L’Isi è da sempre sospettata di illecite connivenze con i talebani, ma fino a quando a Islamabad comandava Pervez Musharraf, era stata più o meno tenuta sotto controllo. Ora che il potere in Pakistan è passato a un debole e rissoso governo civile, la situazione è degenerata. I 60.000 soldati pakistani che dovrebbero controllare le cosiddette zone tribali al confine con l’Afghanistan, che Al Qaida ha trasformato nella sua nuova base operativa e dove - presumibilmente - si nasconde lo stesso Osama Bin Laden se ne stanno rintanati nelle loro basi, lasciando campo libero a estremisti come Mangal Bagh, Qazi Mehboob, e Baitullah Mehsud, l’uomo accusato di avere organizzato l’assassinio di Benazir Bhutto. Finora gli Stati Uniti erano stati riluttanti a prendere di petto il Pakistan, ma ora la misura sembra essere colma. Da un lato, il comandante della Nato in Afghanistan, generale Dan McNeil, ha detto chiaro e tondo che se il governo di Islamabad non provvederà a riportare le zone tribali sotto controllo, la guerra contro i talebani non potrà mai essere vinta; dall’altra, la Casa Bianca si è stancata di pompare miliardi, senza risultati tangibili, in un Paese che sta ormai facendo il doppio gioco. Un primo risultato di questo nuovo braccio di ferro è che, sempre più spesso, gli americani attaccano obiettivi di Al Qaida in territorio pakistano. Ma, fino a dove Washington potrà spingersi rimane da vedere, perché non può rischiare una rottura aperta.


Finché il Pakistan rimane, sul piano formale, un alleato, una certa opera di contenimento resta possibile. Se invece si arrivasse a una rottura, e il Paese, che dispone dell’arma atomica, dovesse scivolare ulteriormente verso il campo islamista, tutti gli equilibri dell’Asia meridionale ne sarebbero sconvolti.

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