Stato minore

Con le sue dimissioni da capo di Stato maggiore, il generale Halutz esce da una situazione della quale lui porta considerevole responsabilità: mai nella storia di Israele lo Stato si è trovato in una congiuntura più favorevole e allo stesso tempo mai è stato guidato da un governo più incapace e rappresentato da partiti più corrotti e invisi all’elettorato. La congiuntura è favorevole anzitutto dal punto di vista dell’economia: piena espansione (4,7 per cento), alto tasso di investimenti (dunque fiducia) esteri; disoccupazione (8,5 per cento) in discesa; sviluppo impressionante del settore tecnologico. I rapporti con l’India e la Cina (da dove il premier Olmert è appena tornato) col Vietnam e il Giappone hanno permesso a Israele per la prima volta di equilibrare il suo bilancio estero con un vantaggio di 2 miliardi di euro delle esportazioni sulle importazioni.
Le cose stanno andando bene anche nel campo militare dove lo scossone dato dalla guerra nel Libano sta trasformando la struttura, i comandi, l’allenamento, i sistemi di difesa, le strategie di attacco di un esercito popolare fondato su riservisti entusiasmati dall’essere riusciti a licenziare democraticamente gerarchie militari colpevoli di averli condotti in maniera sbagliata in una guerra sbagliata al momento sbagliato.
I riservisti stanno diventando il fattore elettorale più significativo anche se politicamente divisi su un vasto ventaglio partitico. Ma proprio a causa della loro rabbia contro la dirigenza politica il loro peso si sta rivelando più importante dei giochi di potere e della influenza dei media. Essi pongono con vigore due fondamentali quesiti: quali saranno i futuri leader e come sfrutteranno senza nuovamente sprecarla una congiuntura internazionale favorevole dovuta allo schieramento anti-iraniano e antiterrorista islamico della maggioranza dei Paesi arabi.
Le risposte verranno inevitabilmente date dalle elezioni interne di quasi tutti i partiti che prima o poi porteranno ad elezioni legislative anticipate. Nel frattempo appare inevitabile la liquidazione del ministro della Difesa Amir Perez, il sindacalista che per un momento si è creduto un piccolo Napoleone. Assieme alla poltrona governativa che ha male occupata perderà probabilmente la presidenza del Partito laburista spaccandolo ancora di più. La caduta di Olmert prenderà più tempo. Ma già oggi i pronostici mostrano che in caso di elezioni trenta seggi andranno al Likud che Bibi Netanyahu sta riformando; i laburisti avrebbero 18 seggi e Kadima, il partito fondato da Sharon e rovinato da Olmert, dodici.
Questo significa che il Likud sta ridiventando il perno delle future coalizioni se riuscirà a ritrovare la sua unità e la fiducia degli elettori di destra e che si ritroverà di fronte a due sfide altrettanto pericolose. Nei confronti dei palestinesi che difficilmente il presidente Abu Mazen sarà capace di sottrarre dal governo di Hamas; col pericolo di provocare la rioccupazione della Striscia di Gaza per consegnarla poi ad una forza internazionale di interposizione (come nel Libano). La seconda sfida è quella nucleare iraniana. Con o senza la collaborazione degli Stati Uniti Israele dovrà affrontarla. C’è chi pensa che dovrebbe farlo solo in cambio di un riconoscimento di nuovi confini definitivi da parte dei Paesi arabi e in primo luogo dell’Arabia Saudita. Questo permetterebbe l’evacuazione negoziata dalla Cisgiordania, il raggruppamento della maggioranza dei coloni (che fra dieci anni raggiungeranno il mezzo milione) in quattro grandi centri urbani.
Sono ipotesi che richiedono una dirigenza politica nuova e coraggiosa. Questo non potrà emergere se non da un profondo ripensamento morale, ideologico, religioso, politico e sociale della società israeliana nella quale - non si deve dimenticare - gli arabi rappresentano il 18 per cento della popolazione e chiedono una crescente autonomia amministrativa e politica.


Il pericolo per il futuro di Israele deriva perciò meno dalle sfide esterne che dai problemi interni più difficili da affrontare che l’Iran e gli hezbollah, soprattutto per un personale politico contestato e una società che chiede con sempre maggior insistenza cosa significhi essere uno Stato ebraico nel terzo millennio.

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