I brutti son diversi. Pensate a Fanfani, o a Gava, o ad alcune immagini da incubo della Prima Repubblica. Lui è alto, ha un metabolismo accelerato a Marlboro, i capelli ancora lo assistono. Però nascere con un buon riguardo da parte della natura non basta a comporre l'immagine da Terza Carica dello Stato. Innanzitutto la cravatta, rosa pallido. Roba che Miuccia Prada s'ammazzerebbe di barbiturici pur di non metterla in produzione. Roba che Fausto Bertinotti, il figlio del proletariato, potrebbe fargli scuola e doposcuola a suon di paternalistici ceffoni sulla nuca.
Non si sa come tradurre quel post-it di tessuto lucido che Gianfranco Fini insiste ad appendersi al collo (ce l'aveva giovedì al direttivo nazionale del Pdl ma, ahinoi, gliel'avevamo già vista), se prenderla come un segno di antagonismo o cosa. Forse lo fa per distanziarsi anche sartorialmente dal presidente del Consiglio, in realtà prende più le distanze dal buon gusto che da Silvio Berlusconi. E prende le distanze da quella specie di lord inglese carrozzato Caraceni che era il suo padre politico: Giorgio Almirante. E poi la cintura beigiolina e il pantalone che un po' sta in piega e un po' no. E insomma questi abiti, anche di griffe, che addosso al suo promettente scheletro non si sa perché virano al burocratico, all'ordinario. Un Kiton camuffato Oviesse. Non ce l'ha, ma quando ripensi a Gianfranco Fini, te lo immagini sempre col fermacravatte dorato e zigrinato. Quello con incisa sopra la data della leva.
Poi l'incarnato. Un po' color cartone da imballaggio, trecentosessantacinque giorni all'anno. Come avesse sempre troppo vento addosso, come dovesse sempre strizzare gli occhi contro il sole rovente. Che poi ormai si sa chi è il sole rovente... Come fosse sempre appena sbarcato da quel motoscafo di passioni adolescenziali su cui i paparazzi l'hanno immortalato qualche tempo fa.
E la cicca in bocca. Vampata di tardivo giovanilismo, divagazione collosa dal protocollo, imbarazzante oggetto estraneo da espellere prima dei discorsi ufficiali trovandole adatta collocazione. La cicca in bocca alla Terza Carica dello Stato è un continuo, potenziale, incidente diplomatico. Per questo il presidente della Camera farebbe meglio a rinunciare alla ginnastica da mascella con le gomme del ponte come un qualsiasi Fonzarelli.
Come pure dovrebbe pretendere dalla compagna, Elisabetta Tulliani, una cura più ossessiva dei suoi accessori. Vanity Fair ha sorpreso Gianfranco Fini con le calze bucate durante una riunione a Napoli con gli industriali. Un filo di scozia blu smagliato senza rimedio. Come un Paul Wolfowitz «qualunque» in una «qualunque» moschea turca. Un incidente estetico, quello. Cosa che non si può dire del suo stile.
Insomma, un appello ai gentili commessi dei negozi di Roma. Qualcuno si occupi della Terza Carica dello Stato. Alla fine darà l'idea di uno rivestito da un commesso. Ma sarà sempre meglio di quando fa da solo. Come in politica.
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