Stop ai medici: vietato operare chi è in fin di vita

Colpevoli di aver tentato nonostante il caso disperato. Colpevoli di aver esaudito l’ultimo desiderio del paziente senza speranze. Di una «paziente inoperabile». Per questo ieri la Corte di Cassazione ha condannato i tre medici dell’ospedale San Giovanni di Roma che avevano deciso di intervenire chirurgicamente. Non è stato sufficiente spiegare che la paziente era stata informata dei rischi che l’intervento avrebbe comportato, che aveva firmato il consenso. La donna sapeva e nonostante tutto aveva scelto la strada chirurgica. Poteva morire, lo aveva capito, ma sperava - in cuor suo - di poter ribaltare le carte, di poter cambiare il corso del destino. Di vivere, di continuare a farlo a dispetto di quell’atroce verità che gli esami clinici le avevano sbattuto sotto agli occhi: metastasi, sei mesi di vita al massimo. Eppure lei aveva deciso di non arrendersi comunque. Il futuro non poteva finirle così, all’improvviso e a tradimento. A 44 anni, si hanno ancora così tanti progetti da realizzare, c’erano due bambine piccole. La notte stessa dell’intervento la donna è morta. Non ha neppure potuto vivere quei sei mesi che le restavano. Sono iniziati i processi, le accuse. Ieri la Cassazione ha giudicato colpevoli di omicidio colposo i tre medici, perchè con quell’intervento hanno violato il codice deontologico. La Suprema Corte, con la sentenza 13746 della IV Sezione penale, specializzata in colpa medica, ha confermato la responsabilità del chirurgo Cristiano Huscher, già finito nelle polemiche per altri interventi «disperati» e i «camici bianchi» Andrea M. e Carmine N. I giudici hanno condiviso «il prioritario profilo di colpa» per aver violato oltre alle regole di prudenza, anche le disposizioni «dettate dalla scienza e dalla coscienza» di chi abbraccia la professione medica.
«Date le condizioni indiscusse ed indiscutibili della paziente- secondo la Suprema Corte- non era possibile attendersi dall’intervento un beneficio per la salute o un miglioramento della qualità della vita». Oggi la sentenza fa discutere, crea sgomento, confonde le coscienze e le posizioni, fa riflettere sulla validità del tanto discusso consenso informato. «In questi casi, piuttosto che rifiutarsi di operare - dice il presidente del Collegio italiano dei chirurghi, Pietro Forestieri - il chirurgo ha il dovere di illustrare con lealtà le prospettive e i rischi reali dell’operazione al paziente». «Per il medico l’obiettivo primario deve essere sempre il miglioramento della condizione clinica del paziente: intervenire quindi è cruciale se vi sono ragionevoli probabilità di successo», dice Ignazio Marino, chirurgo e presidente della Commissione d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale.

E decisamente favorevole è invece Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione Comunista: «La sentenza è importante perché fissa il principio che i malati incurabili non devono essere sottoposti ad operazioni inutili». Anche Eugenia Roccella sembra essere soddisfatta della sentenza: «È la dimostrazione che il consenso informato non può essere tutto».

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