Ti racconto Roma - Saturnino, il padre di tutti i grillini

Lucio Apuleio Saturnino in piazza invitata tutti ad andare a "pedulare": il primo vaffa della storia. Fu lui a usare il grano come reddito di cittadinanza e a sviluppare una politica giustizialista contro chiunque offendesse la dignità del popolo

Ti racconto Roma - Saturnino, il padre di tutti i grillini

I gesti sono da attore, per carattere, vocazione, strategia, volgare ricerca del consenso popolare. È una passione giovanile, quella di un ragazzo destinato alla politica ma che amava frequentare mimi e comici. I suoi comizi sono uno spettacolo di luoghi comuni, spesso urlati, qualche volta sagaci, spesso disegnati sul ventre della piazza. È un tribuno della plebe che si nutre di applausi. È il presente l’unico sentimento del tempo che ha un vero significato politico. È il senso profondo della sua strategia politica, l’unico che conosce.

Lucio Apuleio Saturnino vuole semplicemente prendersi la rivincita, in ogni modo e con rabbia vendicativa, verso il cerchio ristretto dei senatori con il mento alzato. Roma non è più la stessa e la schiatta degli ottimati fatica a riconoscerla. Sono passati sei secoli e mezzo dalla sua fondazione. Non è più un villaggio, non è più solo una città. È una minaccia a cui tocca difendersi. La modernità sta entrando nella storia e con lei un certo benessere, non per tutti, ma che si sta allargando e le masse non sono la semplice plebaglia di qualche tempo fa: contano. Sono un’opzione politica per chi sa addomesticarle, Saturnino lo sa fare.

È il primo tribuno che può essere definito populista. È lo strumento demagogico che Caio Mario, l’uomo nuovo che sta cambiando il destino di Roma, sta utilizzando per piegare il Senato. Saturnino è figlio del tempo, di questo tempo che sta rivoluzionando costumi, morale, ma soprattutto l’assetto costituzionale della repubblica. Si sente nell’aria l’odore dei pieni poteri e arriva dai calzari di un generale straordinario. Caio Mario ha il volto di chi ha arato i campi sotto il sole. È il figlio della terra, non degli dèi. Viene da Arpino, un paese lontano dalla nobiltà del Palatino, e non ha santi in Senato. Ha solo sé stesso. È un homo novus, che a Roma suona come un crimine. Quando sale per la prima volta al Campidoglio, la città lo guarda con sospetto. I patrizi sussurrano che puzza di stalla. Lo deridono perché non parla il greco, lingua senza frontiere. Ma Mario non si piega. Sa che per contare a Roma bisogna vincere.

E lui vince. Sempre. Mario entra nella Storia senza bussare. Distrugge Giugurta, il re africano che aveva umiliato la Repubblica. Poi affronta i Cimbri e i Teutoni, i giganti del nord che fanno tremare le legioni e a Aquae Sextiae li massacra come un macellaio freddo e preciso. I Germani, prima invincibili, diventano fantasmi nei canti dei superstiti. A Vercelli completa l’opera: Roma è salva, e Mario è il salvatore. Non ha eleganza, non ha retorica, non scrive trattati. Ma conosce il potere. Sa che il popolo è più forte dell’aristocrazia, che la paura è una moneta solida, che l’autorità si conquista con il sangue. Così diventa console. Non una, non due. Sette volte. Un numero che grida eresia. Nessuno prima di lui aveva osato tanto, eppure il popolo lo acclama, lo venera. Non è solo un generale.

È un rivoluzionario, rompe il mos maiorum, la regola sacra dei padri, e trasforma l’esercito in una macchina nuova. Prima i soldati erano cittadini con terra e onore. Lui prende i poveri, i nullatenenti, e li arma. Promette paga, bottino, terre. In cambio, chiede fedeltà. Non alla Repubblica. A lui. È qui che Roma cambia per sempre. Non se ne accorge subito. Ma nel momento in cui i soldati giurano sull’uomo e non sul Senato, è l’inizio dell’Impero. E nessuno potrà più tornare indietro. Si prende sette volte di seguito il consolato, stracciando ogni regola, visto che tra una carica e l’altra, per la legge dei padri, dovevano passare almeno dieci anni. Mario i padri li ha seppelliti.

È la legge della sua generazione e Saturnino ci sta dentro bene, anche troppo, perché Mario si sforza di mantenere una decenza. Saturnino fa dell’indecenza uno spettacolo di arte politica, dove il concetto più immediato è l’andare a pedicare. Lucio Apuleio non è un uomo nuovo. È l’erede di una famiglia dell’aristocrazia plebea, con un nonno pretore e un antenato che arrivò a accusare il grande Furio Camillo di aver trafugato i tesori di Veio: ma questa è roba antica. È solo il segno della tendenza della gens apuleia a detestare il patriziato. La rabbia di Saturnino però è più recente e ha a che fare con l’incarico da questore. Il 104 avanti cristo, che qui per comodità scriviamo alla maniera dei cristiani, è un anno di grave crisi economica. Non c’è da mangiare e il Senato non sa come tenere a bada le masse di nullafacenti. A Saturnino è stato affidato il compito di far arrivare le navi di grano dalla Sicilia al porto di Ostia. Il guaio è che il grano sembra non esserci, i pirati fanno il loro mestiere e c’è, soprattutto tra gli ottimati, chi ci sta speculando.

La povertà di grano crea profitti futuri per chi sa maneggiare le informazioni importanti. Saturnino non si percepisce come incapace ma diventa in fretta il capro espiatorio da mettere in piazza. Il Senato lo destituisce e al suo posto mette un pezzo da novanta del partito degli optimati. È Marco Emilio Scauro, uomo dalle caviglie grosse, dalla cultura e eleganza leggendaria, forse il primo a Roma a scrivere una autobiografia, il De vita sua, ricordato come il più illustre principe del Senato. Il giovane Cicerone sognava di diventare, dal nulla, come lui. I suoi avversari lo accusano di essere un manipolatore avido di denaro e senza alcun dubbio era bravo a nascondere la propria cupidigia con l’abilità nel farla coincidere con gli interessi della repubblica. Scauro era inflessibile, ripudiò il figlio dopo una sconfitta militare. Il figlio si tolse la vita. Saturnino e Scauro sono due tipi umani incompatibili, uno dei due in politica è di troppo: è lotta di potere e di visioni del mondo. È conquista di consenso e scontri di dignitas e autorictas.

Saturnino, quattro anni dopo il primo fallimento politico, si prende il tribunato della plebe e costruisce un’alleanza con Gaio Servilio Glaucia, che con maniere spicce, e sanguinose, riesce a conquistare il consolato. I metodi dei populisti sono sicuramente brutali, ma liquidarli con troppa superficialità sarebbe un errore. Qualcosa di reale nella loro politica comunque c’è. Le riforme, spacciate come eredità della visione dei Gracchi, non sono solo finzioni. La Lex Appuleia è una riforma che tocca vari campi e punta a togliere potere e privilegi al partito degli optimati. È per il popolo e contro l’oligarchia senatoriale. Saturnino non è uno statista. È un gladiatore sceso nell’arena con il compito di riscrivere le regole del gioco. Si sente l’odore della guerra civile. Con lui c’è Glaucia, uno che parla veloce e calcola meglio di un mercante. Tutti e due sono pronti a ribaltare l’orizzonte di Roma. Saturnino vara una lex frumentaria: pane quasi gratis per tutti, a spese dello Stato. Non è una misura economica.

È una bomba politica. I nobili strillano, gli sfaticati applaudono. Poi arriva il capolavoro: una lex agraria che distribuisce le terre del nord Italia ai veterani di Mario e fondazione di colonie nelle province, pure in Africa. Per la prima volta, Roma sembra più larga, ma non è il futuro. È una trappola, perché la legge dice che chi si oppone perde la cittadinanza. È la legge della forca: o sei con me o sei un nemico del popolo. Ecco la ferita. Non è solo questione di grano, o di campi da coltivare. È il principio. Saturnino vuole uno Stato in cui la volontà della plebe sia legge assoluta. Dove il Senato non conta più. Dove il popolo può decidere chi ha il diritto di essere romano

. Poi arriva la legge sulla maestà, la lex Appuleia. Chi si oppone alla gloria del popolo romano, chi ne rovina il prestigio, può essere processato. È una parola nuova, maiestas. Entra nelle vene della Repubblica e le cambia per sempre. Da quel momento, non basta più essere innocente. La colpa è essere inviso alla piazza. Glaucia non sta a guardare, da pretore riforma i tribunali. I giudici saranno solo cavalieri. Addio equilibrio. I senatori vengono messi sotto accusa, gli equites ne diventano i giudici. Una Repubblica che si giudica da sola. E intanto Saturnino pensa in grande. Riprova a farsi eleggere tribuno. Glaucia vuole il consolato. Ma c’è un problema.

C’è un altro candidato forte, Memmio. E allora succede quello che non doveva succedere: durante un’assemblea pubblica, Memmio viene aggredito e ucciso. In pieno giorno. Sotto gli occhi di Roma. Il gioco è finito. Il Senato si riunisce. Mario, alleato dei due, riceve un ordine: Senatus consultum ultimum. Che significa: “Difendi la Repubblica a ogni costo.” E Mario lo fa. Senza onore. Senza pietà. Abbandona i suoi amici. Saturnino si barrica sul Campidoglio. Glaucia viene stanato e ucciso, forse nella Curia, forse in casa sua. Saturnino si arrende. Viene imprigionato. Ma la folla, quella stessa folla che un tempo lo acclamava, adesso lo lapida. Muore tra le pietre.

Senza processo. Senza difesa. Finisce come finiscono i rivoluzionari senza misura. E in fondo, la sua fine è il suo destino. In una Roma che ancora crede nella mos maiorum, lui ha aperto la porta al caos. E il caos ha risposto.

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