
Tito Labieno è un enigma. Questa storia parla di guerre, colpi di stato, caos e metamorfosi, svolte che spezzano vecchi legami e, soprattutto, di un’amicizia che sembra deragliare quando il destino di Roma, della res publica, si incammina verso un bivio senza ritorno. È la notte fra il dieci e l'undici gennaio del 49 avanti Cristo e Giulio Cesare sta per passare il Rubicone. È il confine che separa Roma dalle sue province. Se lo superi non come privato cittadino ma da generale, in compagnia delle tue legioni, stai di fatto minacciando la repubblica. Catilina è stato condannato per molto meno. Cesare lo sa ma non ha alternative. Se torna a Roma senza l’imperium verrà comunque processato. Catone, il minore, lo ha già promesso a tutti. Cesare ha conquistato la Gallia senza il permesso del Senato. Cesare è il male oscuro che da troppo tempo oscura le libertà dei pochi. È l’erede di Mario, il sanguinario, che punta a cancellare le leggi dei padri. Non c’è nessuno più pericoloso di lui. Questo pensa Catone, questo pensano gli optimati, le vecchie famiglie che da sempre si arrogano il diritto di governare la repubblica. Cesare sarebbe uno di loro ma fin da ragazzo si sentiva superiore, un patrizio demagogico che grazie a sua zia Giulia, moglie di Caio Mario, si è preso la fazione dei populares. Ora vuole prendersi tutto. Cesare pensa che i Metelli, i Domizi, i Corneli e quel che resta degli Scipioni sia solo un’oligarchia di famiglie ottuse, contrarie a qualsiasi cambiamento, che in nome del Senato si preoccupano di tutelare i propri interessi, il potere, le rendite, gli affari portati avanti senza sporcarsi le mani, delegando ogni cosa a clientes e faccendieri. Sono il ritratto dell’ipocrisia. Lo dimostra l’accordo che hanno fatto con il vecchio Pompeo. Cosa c’entra il grande uomo con loro? Pompeo Magno, il figlio del macellaio del Piceno, una famiglia di uomini nuovi che trova spazio a Roma facendo il lavoro brutale e sanguinario per conto di Silla. Pompeo che più di ogni altro ha messo in ginocchio il Senato. Gneo Pompeo il triumviro con il ricchissimo Crasso, usuraio e palazzinaro, e lo stesso Cesare. Pompeo a cui Cesare concede in sposa l’unica figlia, bella e giovane, ritrovandosi così come genero un uomo di dieci anni più vecchio di lui. Gneo e Giulia si sono amati, fino alla morte, la morte di lei. Poi tutto è precipitato. Crasso muore in quella folle guerra contro i Parti, in una pianura della Persia occidentale, sotto le mura di Carrhae, e il vecchio Pompeo comincia a guardare con sospetto le mosse dell’uomo che ha conquistato la Gallia. È per questo che adesso ci si trova qui, sul Rubicone. Alea iacta est. Il dado è tratto. Cesare si prepara a dichiarare guerra a Roma. Lo fa capire ai suoi uomini, i veterani della tredicesima, la Legio XIII Gemina, la più fedele, quella con cui ha assediato Gergovia e combattuto ad Alesia, circa cinquemila fanti e trecento cavalieri. Il discorso è semplice: siete stati con me per nove anni, ora i miei avversari, per rancore e invidia, stanno cambiando le leggi per impedire la mia candidatura a console; non sono io che faccio guerra a Roma e il Senato che mi sta dichiarando guerra. Poi aggiunge: sarà dura e ci giochiamo la vita e la libertà, se qualcuno non se la sente se ne vada adesso. Ecco l’enigma. Tra i pochi che se ne vanno c’è il braccio destro di Cesare, il suo luogotenente in Gallia, l’amico con cui ha condiviso ogni scelta, l’unico generale a cui ha affidato le sue truppe quando doveva correre a Roma per reclutare nuove legioni. È il suo alter ego. Tito Labieno è un provinciale che ha fatto carriera. È Piceno anche lui e questo potrebbe essere il legame che lo spinge verso Pompeo. È la fedeltà dei clientes. Qualcuno dice che le ragioni di Labieno siano invece politiche e morali. È un uomo della repubblica e non starà al fianco di un nemico di Roma e poi conosce Cesare e la sua smisurata ambizione. Solo che il ragionamento un po’ strano per il nipote di Gaio Rabirio, il braccio destro di quel populista, attore rivoluzionario che prometteva il grano di cittadinanza a ogni scansafatiche della suburra, che tanti ricordano con il nome di Saturnino. Labieno non ha mai mostrato questa coscienza repubblicana. Si conoscono, con Cesare, da una vita, da quando erano ragazzi in armi. Sono stati soldati nella campagna contro i pirati cilici sotto le insegne Publio Servilio Vatia Isaurico. Tutti e due sono stati sospettati di complicità con Catilina. Fu Labieno, da tribuno della plebe, ad aprire la strada al triumvirato e a proporre ogni legge favorevole a Pompeo e Cesare. Fu Labieno a permettere l’elezione di Cesare a Pontifex Maximus. E poi in Gallia, fianco a fianco a sderenare Tigurini, Belgi, Atrebati, Morini, Treveri.
Cosa sta accadendo adesso? Perché Labieno dice no? Labieno che era un altro Cesare, o perlomeno così pensava di essere. La sua storia ha uno strappo che si può spiegare in mille modi, ma nessuno è davvero convincente. C’è una teoria più imponderabile delle altre. È quella a cui è bello credere. E se fosse solo finzione? È come se un pezzo di Cesare si fosse sacrificato per costruire l’illusione della divisione. Una scacchiera perfetta ha bisogno di un cavallo che si muova in diagonale. Qualcuno che stia nel campo avversario, ma giochi per te. Labieno è il doppio volto della guerra civile. Il suo tradimento è troppo scenico, troppo teatrale, troppo utile. È il traditore necessario. La maschera che serve a Cesare per stanare Pompeo e i suoi figli, per entrarci dentro, per conoscerli, per abbatterli dall’interno. A Farsalo è l’assenza a far vincere Cesare. A Munda è il cedimento. Due battaglie, due segni, un’unica strategia. No, non ci sono prove. Labieno in realtà combatte contro il suo vecchio generale fino alla morte e lo disprezza in pubblico ogni volta che può. È lui a Farsalo, quando Pompeo e Cesare si giocano Roma a dadi, che parla alle legioni rassicurandole sulla vittoria. Conosco il traditore meglio di chiunque altro e so come batterlo. Benissimo. I pompeiani sono in vantaggio tattico e numerico. Cesare può solo perdere. Almeno così sembra, ma il grande Pompeo affida il suo destino all’azione della cavalleria, proprio quella affidata al suo clientes piceno. Il guaio è che quella cavalleria arriva quando è troppo tardi.
Labieno nel momento decisivo si smarrisce. Nessuno sa davvero spiegare perché. A Farsalo Cesare mette in scacco Pompeo e lo rincorre per tutto il Mediterraneo. Gneo troverà un morte infida per la scelta di un faraone che in questo modo pensa di gratificare un futuro potente alleato. Cesare non ringrazia e trova questo tradimento meschino e mette la mano sulla faccia per non vedere la testa del suo vecchio amico. La raccontano così e forse è propaganda. Di sicuro il faraone viene giustiziato e al suo posto sul trono finisce la sorella. È bella e seducente, nonostante il naso. Cesare amerà Cleopatra al di là del dovuto. Labieno continua la sua battaglia e non si arrende. Si schiera con i figli di Pompeo e con Catone. È nella schiera degli ultimi repubblicani. L’ultimo atto è in una sperduta valle spagnola. La testa la riconosce subito e fatica a nascondere la sorpresa. Non doveva per forza finire così. I suoi soldati, quella testa, l’hanno recisa e staccata dal corpo per portarla come un trofeo, un morto cercato e trovato in mezzo a trentamila corpi. È la fine del giorno e hanno combattuto in questa conca fangosa, sotto una roccaforte che gli iberici chiamano Munda.
È andata bene per un tiro di dadi. Gli altri, i figli del suo vecchio amico Pompeo, stavano sicuramente messi meglio. Erano più numerosi e asserragliati in alto, dalla parte del fiume meno paludosa. È per questo che scelgono di uscire dalle fortificazioni, scendere giù e dare battaglia. È proprio quello che voleva, giocarsi tutto in un colpo solo e scommettere sulla fortuna. Il sole illuminava tutto. Il merito va ai veterani della decima legio. Sono stati con lui in Gallia e lo hanno seguito fino a qui. Meravigliosi. I pompeiani non si aspettavano quella mossa sulla destra dello schieramento, un vero azzardo tattico e poi quello strano tentativo della cavalleria nemica di correre ai ripari e intercettare l’offensiva. È un ripiegamento, la corsa all’indietro per proteggere il lato debole. Un errore? Un equivoco? L’unica cosa certa è che i pompeiani interpretano quella mossa tattica come una fuga.
È la disfatta. Le tredici legioni dei figli di Pompeo vengono distrutte. Il capo della cavalleria ha fatto un disastro. Giulio Cesare si è appena preso Roma. È la sua ultima battaglia. Dicono che questa volta non ha combattuto per la vittoria ma per sopravvivere.
La testa che ha davanti ai suoi piedi è quella di un uomo che un tempo è stato il suo più fedele compagno di guerra, il suo luogotenente per i lunghi anni di lotta in Gallia. È Tito Labieno. Cesare fa seppellire la testa e il corpo con tutti gli onori. È un eroe finito dalla parte sbagliata di una sporca guerra civile. Nessuno, in fondo, lo ha servito meglio di lui.