"Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto, vidi e conobbi l’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto". Secondo la maggior parte dei commentatori, quando Dante Alighieri scrisse la sua Commedia non ebbe alcun dubbio: Celestino V, al secolo Pietro da Morrone, andava spedito all'Inferno, nel girone degli ignavi. Una condanna frutto di una decisione: quella di avere rinunciato alla carica di papa aprendo le porte al suo successore, Bonifacio VIII.
Nel tempo, i fatti, la critica e gli studi hanno ridimensionato questa visione negativa di Celestino, al punto che qualcuno mette anche in dubbio che il Sommo Poeta parlasse del monaco. In parte perché Pietro da Morrone fu canonizzato quando Dante era ancora in vita, in parte perché pochi anni dopo Francesco Petrarca descrisse Celestino come una figura nient'affatto vigliacca, che scelse anzi la rinuncia per dedicarsi alla contemplazione dimostrando forza di volontà.
Certo, tutti gli indizi fanno credere che Dante in quei versi si stesse rivolgendo proprio al pontefice. Eppure, il fatto che già all'epoca si guardasse con empatia alla scelta di Celestino fa riflettere sulla forza dirompente di quella scelta e su come poi la storia, secoli dopo, avrebbe riportato alla luce il tema della rinuncia, trasformandola non più un gesto "medievale" dimenticato nei secoli ma un clamoroso precedente, reso tale da Benedetto XVI.
Pietro, da eremita a papa
Ma chi era Celestino? Le cronache parlano di Pietro Angelerio - questo il suo nome - come di un uomo votato all'ascetismo che viveva tra Abruzzo e Molise, passando da monasteri a grotte nel segno della preghiera. Passò solo un breve periodo a Roma, il tempo di prendere gli ordini sacerdotali. Poi tornò tra le sue montagne, dove la durezza della natura unita alla contemplazione facevano sentire al futuro papa la presenza del divino. Il suo distacco dal mondo non significò comunque un disinteresse verso le sorti della Chiesa. Mentre il frate cercava di isolarsi fino a raggiungere luoghi inaccessibili, allo stesso tempo volle fondare un ordine di eremiti e intraprese viaggi in cui incontrò grandi personalità e monarchi, scrivendo anche ai cardinali che dovevano scegliere il nuovo papa. La sua fama di asceta, di eremita già santo, si era espansa fino a raggiungere diverse corti d'Europa, al punto che i cardinali e il re Carlo d'Angiò, dopo anni di trattative, vollero lui come successore di Niccolò IV.
Fu così che nell'estate del 1294, alcuni messi partiti da Perugia si inerpicarono sul monte Morrone per dare al monaco la notizia della sua elezione. Possiamo solo immaginare cosa fu per frate Pietro - solitario, anziano, vestito alla buona e circondato al massimo da qualche pellegrino - vedere arrivare da un sentiero isolato degli emissari dei cardinali che gli annunciavano la sua nomina a capo della cristianità. Uno choc descritto anche da chi si presentò al suo cospetto, al punto che si dice che lo stesso frate, attonito, guardò il Crocifisso e rimase senza parole e commosso, prima di accettare l'incarico.
Il breve pontificato di Celestino
La sua elezione, giunta dopo un periodo lunghissimo di sede vacante, fu una scelta particolare anche se non del tutto rivoluzionaria: si trattava di un monaco e non di un cardinale, di un eremita con fama di predicatore e dalla grande forza spirituale. Fu una sorta di uscita d'emergenza rispetto a uno stallo pericolosissimo per la Chiesa e per il mondo politico, ma che aveva anche degli strani connotati di misticismo.
Tuttavia, sin dalle prime mosse, Celestino apparve fin troppo inadeguato al suo ruolo: un asceta spedito sul trono di Pietro non abituato alla politica e senza esperienza per reggere alle pressioni di una guerra tra Chiesa e sovrani e ai conflitti all'interno della stessa Curia. Il suo pontificato non fu solo contraddistinto dalla brevità ma anche dalla sottomissione al potere angioino e alla pressione del futuro successore, dei porporati e del suo stesso ordine. Celestino si impegnò a favore della riconciliazione, al punto da promuovere subito la ben nota Perdonanza, ma si rivelò presto incapace di imporre la propria autorità ma soprattutto di resistere alla volontà del re di Napoli, tanto che spostò la Curia vicino alla corte del sovrano, a Napoli, e divenne suo malgrado lo strumento del re per nominare cardinali francesi o filo-francesi oppure del suo stesso ordine.
La rinuncia e la prigionia
Dopo pochi mesi, insofferente, pressato e forse anche deluso, il papa-monaco, non senza spinta del futuro Bonifacio VIII, prese la decisione di rinunciare al ministero petrino. Carlo d'Angiò fece di tutto per fargli cambiare idea, sperando che il senso del dovere dell'asceta prendesse il sopravvento sulla sua personalità e augurandosi di avere ancora un papa vicino alla sua linea. Ma il pontefice aveva fatto la sua scelta. Il 13 dicembre 1294, riuniti i cardinali in concistoro, prese la pergamena e lesse il suo atto: "Spinto da legittime ragioni, per umiltà e debolezza del mio corpo e la malignità della Plebe, al fine di recuperare con la consolazione della vita di prima, la tranquillità perduta, abbandono liberamente e spontaneamente il Pontificato".
Celestino si sentiva di nuovo libero, esortò i cardinali a trovarsi un altro papa e, abbandonati i paramenti sacri, gli ori e le porpore del concistoro, fu di nuovo frate Pietro dal Morrone, agognando quei monti dove poteva sentirsi di nuovo vicino a Dio. L'ormai ex papa provò a sparire per sempre. Si nascose tra le montagne abruzzesi e l'Adriatico, provò a imbarcarsi per l'Oriente, sperando di finire i suoi giorni nell'anonimato di un monastero al di là del mare. Ma invece di raggiungere la beata solitudine di un eremo, ad attenderlo c'era la solitudine meno beata del castello di Fumone, dove gli uomini di Bonifacio lo controllavano giorno e notte.
Il papa, eletto poche settimane dopo la rinuncia, non poteva lasciarlo andare. Troppi i pericoli di uno scisma, troppi i rischi di un pontefice rinunciatario con la fama di santo e troppi i cardinali non fedeli al nuovo vescovo di Roma e legati al re di Napoli. Gli uomini di Bonifacio lo cercarono e lo portarono in una torre, dove trovò la morte alcuni mesi dopo in una cella, sì, ma non di quel desiderato convento.
Papa Caetani iniziò subito il processo di canonizzazione. Invece di compiere quella "damnatio memoriae" che molti potevano attendersi, in realtà il papa non rinnegò mai l'importanza e la stima verso il predecessore, ma anzi si mostrò attento a non intaccarne il ricordo, tanto appunto da avviare l'iter per farlo santo. Processo che si concluse il 5 maggio del 1313, quando Celestino fu proclamato santo da Clemente V, succeduto a Bonifacio e ormai trasferito in Francia. E forse anche in questo veloce processo si vide lo "zampino" d'Oltralpe.
Il pallio di Benedetto XVI
Molti secoli dopo, nel 2009, Benedetto XVI si recò in visita nell'Abruzzo devastato dal terremoto e pose il proprio pallio sulla teca contente le spoglie di Celestino. Il gesto, dopo la rinuncia pronunciata nel febbraio del 2013, assunse immediatamente un significato quasi di messaggio "in codice": in caso di impossibilità a guidare la "barca di Pietro", Joseph Ratzinger avrebbe scelto la via della rinuncia. Come Celestino, nato Pietro Angelerio, che 700 anni prima di quel 2013 veniva proclamato santo.
Tra i due uomini e le due rinunce vi sono differenze. Celestino sembrò volersi liberare apertamente di un ruolo che da vecchio eremita sapeva di non avere dovuto accettare. Ratzinger, invece, non manifestò la rinuncia come modo per riappropriarsi della propria vita, ma dichiarò di farsi da parte per rinvigorire la Chiesa. "Nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo" spiegava nella sua "declaratio", perché, come aveva scritto poco prima "le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino".
Uomini differenti, pontefici del proprio tempo, uniti però da una scelta che, nella loro personale visione, si è trasformata nella espressione della propria vocazione: la capacità di decidere, a un certo punto, che il "munus" non era più nelle proprie corde. E che il dovere doveva esprimersi nella contemplazione, per sé stessi e per la Chiesa.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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