Quanti? «Teens», ha risposto il tenente colonnello Jimmie Cummings, serrando forte la mascella per ricacciare indietro l’imbarazzo, la vergogna di fronte alle domande dei giornalisti. Teens come teen ager, quando si vuol dire, per esempio, di ragazzi fra i 13 e i 19 anni. In questo caso il colonnello Cummings, portavoce dell’esercito degli Stati Uniti non si riferiva all’età, ma al numero dei morti nella strage di civili compiuta fra sabato e domenica nella provincia di Kandahar da un soldato americano. Sedici morti, dicono gli afghani, comprese donne e bambini piccoli, molto piccoli. Cummings dice che sì, che la cifra è disgraziatamente attendibile, anche se le forze Usa non sono state autorizzate a contare i corpi.
Il giorno dopo la strage nel distretto di Panjwayi, poco a sud di Kandahar, si sa questo: che il responsabile del massacro compiuto in tre distinte abitazioni di civili di notte, a freddo, senza un perché, è probabilmente un sergente di 35 anni, sposato con 2 figli, veterano dell’Irak (tre missioni), da dicembre in Afghanistan. Un militare di supporto alle forze speciali. Tutto il resto -le eventuali motivazioni, le condizioni mentali dell’uomo, che cosa stia dicendo ai funzionari dei servizi di sicurezza che lo interrogano, come e perché abbia avuto la libertà di movimento per allontanarsi nottetempo dalla base alla quale era assegnato- tutto è coperto dal segreto militare.
E anche questo è servito a esacerbare la rabbia che in Afghanistan monta con la furia di un tornado contro gli Stati Uniti e, per estensione, contro le truppe della cosiddetta missione di stabilizzazione. I talebani promettono vendetta, «con l’aiuto di Allah», mentre il Parlamento afghano fa sapere di aver esaurito la pazienza sulle azioni «arbitrarie» delle truppe straniere e annuncia che non si accontenterà di un processo in America al responsabile della strage, ma ne chiede uno, aperto al pubblico, da celebrarsi a Kabul, «davanti al popolo afghano».
Ma è una pia illusione. La richiesta del Parlamento è già stata seccamente respinta dal Pentagono, che in questo come in altri analoghi casi in passato segue la regola di processare in patria i suoi soldati. Per quanto riguarda poi la strategia e gli obiettivi degli Usa in Afghanistan, tutto resta come prima, avverte la Casa Bianca.
Altissimo è invece il timore di ritorsioni, di una vendetta a caldo da parte dei talebani e di quanti sono andati a ingrossare le fila degli insorti ad ogni nuovo episodio oltraggioso «firmato» dai soldati Usa. Massima è l’allerta anche nelle nostre basi dislocate nell’ovest del Paese, nella regione di Herat. Ci mancava solo questa orrenda storia, dopo le violente proteste e le acute tensioni scatenate dalla profanazione di alcune copie del Corano nella base americana di Baghram, per rimettere in discussione il lento lavoro di ricucitura effettuato dai nostri militari con la popolazione locale. Al momento, riferiscono voci dal Comando italiano, «la situazione si mantiene tranquilla. Andiamo avanti con la nostra agenda di impegni, che comprendono compiti di sicurezza e di ricostruzione, in collaborazione con la popolazione e le autorità locali». Merito anche di numerosi capi tribù della provincia di Kandahar, che hanno lanciato ieri un appello alla calma cercando di contenere la furia di una popolazione inutilmente e ripetutamente offesa e umiliata dal comportamento di alcuni grandi mascalzoni vestiti con la mimetica dell’esercito americano.
Segno che le scuse di Obama, insieme con lo sdegno e il cordoglio internazionali sono stati correttamente interpretati e sono andati a buon fine.Ma si può capire con quale sovrappiù di difficoltà, e di rischio, i nostri soldati stanno conducendo in questi giorni una campagna per contrastare la raccolta di papavero da oppio nella regione di Farah.
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