La strizzacervelli che ha vinto due ori alle Olimpiadi

È la psicologa di Sofia Goggia e Michela Moioli, entrambe vincitrici ai giochi coreani: «Ho dato loro una spinta»

di Piera Anna Franini

Due dei tre ori alle Olimpiadi invernali in Corea portano anche la sua firma. Quella di Lucia Bocchi, psicologa clinica e psicoterapeuta, al fianco della sciatrice Sofia Goggia e della snowboardista Michela Moioli: entrambe rientrate in Italia - appunto - con la medaglia al collo. Bocchi collabora con le due campionesse da quattro anni. Si presentarono nello studio zoppicanti, reduci da brutti infortuni. Bisognava riprendere la forma fisica e soprattutto quella mentale, superare rabbie da caduta e frustrazioni, ripristinare l'equilibrio e liberare le energie giuste. In tutti e due i casi l'obiettivo è stato raggiunto.

Bocchi sposa la psicologia dello sport con la psicoterapia Istdp, integrando le tecniche cognitive tradizionali con un affondo più clinico. In più per vent'anni è stata allenatrice federale di sci. Per dirla con Galilei, combina il mondo di carta con le sensate esperienze sul campo: queste ultime determinanti, anche se lei ridimensiona parlando di «una semplice marcia in più». Le due campionesse olimpioniche hanno dichiarato che il sostegno psicologico è stato fondamentale per la vittoria. E lei, che traccia pensa d'avere lasciato? «Sento di aver dato loro una spinta in prossimità del traguardo. Quanto alla traccia, credo di aver contribuito a integrare la parte dell'atleta con quella della persona, l'obiettivo ultimo è quello di far brillare il talento per lo sport anche nella quotidianità».

Chi è il campione? Cosa lo contraddistingue? «La capacità di resilienza: quando si scontra con un ostacolo, il campione reagisce in modo così positivo da diventare ancora più forte. E poi la fame di essere riconosciuti: spinta fondamentale per raggiungere il traguardo. Capita che la fame nasca perché non c'è stato un riconoscimento all'inizio, magari nella stessa famiglia». Attenzione, però, al rovescio della medaglia. «Raggiungere il successo rischia di annullare la molla di partenza. Ed è lì che diventa importante il supporto di uno psicoterapeuta». Le vittorie possono avere l'effetto di un'ubriacatura pericolosa per l'esordiente «che entra in una sorta di vortice travolgente, mentre chi ha familiarità col successo vive con normalità lo status di persona famosa». Gestire fallimenti e successi non è facile, «sono entrambi pericolosi. Possono portare l'atleta a perdere centralità e concentrazione». Mentre un po' di paura del fallimento è positiva, anzi, «è una delle motivazioni più importanti che spinge ad allenarsi anche quando non si ha voglia».

Ogni sport, naturalmente, ha le sue specificità: «Cambia la complessità del gesto, la durata della prestazione, la tipologia dell'avversario: in carne e ossa nel tennis, un cronometro per lo sci. I meccanismi di base sono comunque gli stessi». All'agonista è richiesto di «essere presente a se stesso, cosa imprescindibile per una strategia vincente». Cosa vuol dire esattamente? «Essere dentro l'azione motoria che si sta svolgendo, stare percettivamente ed emotivamente nel presente senza scivolare nel futuro pensando ossessivamente al risultato, o volgere troppo lo sguardo al passato, pensando all'errore fatto. Prima della partenza per la Corea ho detto a Goggia e Moioli: è vietato pensare alla medaglia finché non è appesa al collo». Il segreto sta nell'essere sul pezzo, concentratissimi, «raggiungere lo stato in cui il corpo è attivato e la mente è lucida. Questo lo si impara attivando strategie mentali che poi bisogna allenarsi ad automatizzare. Il mio compito sta anche nell'insegnare queste strategie e controllare che vengano automatizzate».

Dietro a un campione si muove un team che in qualche caso può trasformarsi in una vera macchina da guerra. «È indispensabile: ormai il talento non riesce ad emergere se vive in solitudine, ha bisogno di uno staff di supporto. Una volta l'allenatore incarnava la figura del padre, del tecnico, dello psicologo. Ora i profili professionali sono andati delineandosi in modo netto per cui c'è il preparatore, l'allenatore, lo psicologo, il nutrizionista. L'importante è anche che le persone, familiari compresi, che gravitano attorno all'atleta siano allineate. E lo psicologo ha proprio il compito di concertare tutti questi elementi». Anche per questo la sua è una figura ormai presente d'ufficio nella federazione sci. «I percorsi con gli atleti cambiano a seconda dell'età e della personalità. Quando uno è evoluto e maturo bastano poche strategie e sedute di sblocco, ma se si attraversa l'età evolutiva e si vive la fase di passaggio dalla tarda adolescenza alla giovinezza, allora il lavoro esige più continuità. Lo sport chiede ai ragazzi risposte da adulti, e loro le danno, ma affettivamente rimangono ragazzi».

Ancora una volta, la numero uno in Coppa del mondo è stata l'anno scorso l'americana Mikaela Shiffrin, fanciulla tutta razionalità e calcolo. L'opposto del nostro Alberto Tomba, esuberanza ed emotività fatta persona. Quanto emotivo e quanto razionale deve e può essere un campione? «Troppa razionalità soffoca, ma allo steso tempo, eccessi d'esuberanza tolgono lucidità per cui il rendimento diventa incostante. Il compito di noi psicologi consiste proprio nell'aiutare gli atleti ad essere centrati, creando un bilanciamento fra i due elementi». Resta l'adagio, secondo cui lo sport è una palestra di vita, «e questa è una delle ragioni per cui facciamo fare sport ai nostri figli. l'individuo si misura con emozioni ed esperienze che poi applicherà nella vita reale. Certo, lo sport è formativo se ben gestito, ma può essere altrettanto distruttivo se affidato a incompetenti. Allenatori e familiari possono fare danni fisici e psicologici, prima di tutto in termini di autostima».

La già citata Shiffrin è una fuoriclasse. Un fenomeno, che - però - invita anche alla riflessione. «È un'atleta costruita a tavolino, nel senso che sua mamma aveva programmato che sarebbe diventata una campionessa di sci. L'ha voluta così.

E a loro due è andata benissimo, ce l'hanno fatta. Ma c'è un esercito di ragazzi programmati in partenza per i quali le famiglie hanno predisposto tutto. E il 90% manca l'obiettivo. Il risultato è che si ritrova perdente e con l'infanzia rubata».

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