Su quelle cime c’è la tempesta dei sentimenti

Con che spirito si può leggere oggi Cime tempestose? Chi scrive lo lesse a 15 anni. Lo lesse avidamente in un paio di sere, restando sveglia fino a tarda notte con gli occhi che bruciavano, incapace di smettere. La notte era il momento più adatto per una storia così cupa e incredibile, lontana anni luce da tutto quello che una ragazza degli anni ’60 poteva aspettarsi da un romanzo. A quell’epoca si leggevano Italo Calvino, Natalia Ginzburg, non era ancora passato di moda Hemingway. Ma nessuno di questi e altri autori poteva indurre a notti insonni. Come mai? Ha scritto in proposito Joyce Carol Oates che questo romanzo «è un universo gotico che si evolve - con grazia assolutamente inevitabile - nel suo opposto; una parabola dell’innocenza, del declino e dell’inesorabile annientamento dell’infanzia». L’Inghilterra vittoriana sembra in effetti il mondo in cui l’infanzia è più atrocemente trattata. Basti pensare all’orribile scuola in cui l’orfano David Copperfield viene educato nell’omonimo romanzo di Dickens, speditovi dall’inflessibile patrigno. Un mondo tutto Bibbia e feroce senso del peccato, dove l’infanzia è costantemente negata.
Ma qui le cose stanno diversamente. La piccola Catherine Earnshaw di nobile famiglia e il trovatello Heathcliff dalla faccia di zingaro accolto in casa dal padre di Catherine, vivono un’infanzia libera e selvaggia in una natura selvaggia, violenta e solitaria come loro. E sono gli stessi protagonisti a uccidere la propria infanzia, un delitto necessario, dal momento che l’infanzia per loro è libertà ma non felicità, essendo la felicità praticamente esclusa dal mondo oscuro del romanzo. Ed è proprio questa natura mai idilliaca, sono queste brughiere di erica battute dal vento, queste notti di piogge e di tuoni, queste tempeste di neve (lo Yorkshire solitario come la solitaria Emily Brontë) a costituire la prima sorpresa per l’ignaro lettore, il primo, grande fascino del libro.
Il secondo aspetto è la perversa attrazione del male. In Cime tempestose il male è rappresentato con candore. È un male che si potrebbe dire «innocente», un demone oscuro che origina dalle profondità di anime predestinate come Heathcliff e Catherine, ma che contagia anche le persone che li circondano: il fratello di Catherine, Hindley, il marito Edgar Linton, la sua stessa figlia che porta l’identico nome, Catherine.
Infine il sesso. O meglio la sua assenza. I protagonisti vivono passioni estreme al di fuori di qualsiasi coinvolgimento erotico. Sul legame furibondo che unisce Catherine e Heathcliff non incidono i rispettivi matrimoni né la nascita dei figli che sembrano essere eventi marginali, non collegati ai rapporti fisici tra i coniugi. Catherine, Heathcliff e i loro infelici congiunti sono personaggi astratti, «caratteri» più che persone, esseri improbabili. Eppure sono terribilmente concreti, reali e «fisici» nella rappresentazione.
Non so quante pagine siano state dedicate alla vocazione letteraria della giovane Emily Brontë, alla sua vita segregata e senza esperienze sentimentali, alla tisi e alla morte che incombono sul suo mondo giovanile, tragica premonizione della sua stessa fine a soli trent’anni. Ma tutto questo il lettore può tranquillamente ignorarlo.

Basta godersi il contrasto fra i suoi personaggi e i protagonisti di tanta letteratura contemporanea, assai più realistici eppure così deboli e falsi rispetto alla potente «realistica irrealtà» dei personaggi di Cime tempestose.

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