Il fallimento del negoziato sul Kosovo, annunciato da mesi, è cosa fatta. E a certificarlo, più efficacemente di quanto non si dica nelle felpate stanze della diplomazia internazionale, sono stati gli scontri (orchestrati da Belgrado, dicono fonti dell'Onu) avvenuti nel tardo pomeriggio di ieri tra serbi kosovari e forze della Nato a Gorazdevac, 90 kilometri a occidente di Pristina. Ovvero nel cuore di quella polveriera che ora pare nuovamente sul punto di esplodere.
Sui tavoli dei generali al quartier generale della Nato, a Bruxelles, si ridispiegano carte militari che fino all'ultimo si era sperato di non dover riesumare; si ridisegnano scenari e ci si accinge a mandare rinforzi in tutta fretta. E l'Italia, che con i suoi soldati rappresenta il nerbo della Kfor (il contingente che fa da cuscinetto fra le due etnie) si ritrova ancora una volta in prima linea.
Con tre giorni d'anticipo sulla data fatidica (il 10 dicembre) i mediatori di Usa, Ue e Russia hanno consegnato ieri il loro rapporto al segretario generale dell'Onu, Ban Ki-Moon. Aspettare ancora, del resto, sarebbe parso grottesco. Chi lo ha scorso, giura che il faldone consta di oltre diecimila parole. Ma quel che c'è scritto serve solo a giustificare i lauti stipendi del plotone di diplomatici che in questi mesi si sono cimentati in un esercizio impossibile: conciliare l'inconciliabile. Quel che avevano da dire, i signori della cosiddetta troika, si poteva spiegare in mezza paginetta, e sintetizzare in due righe. La Serbia è disposta a concedere al Kosovo una larga autonomia, ma non l'indipendenza. Mentre Pristina non vuol sentir parlare d'altro che di indipendenza vera, reale, a tutto tondo. Baratro era, e baratro resta, dunque.
A leggerlo tra le righe, il rapporto non racconta solo la pace impossibile tra serbi e albanesi. Esso denuncia, soprattutto, l'inconciliabilità delle tre diverse anime che compongono la troika dei cosiddetti mediatori: l'anima filo albanese degli Stati Uniti; quella filo serba della Russia, e quella, ondivaga e frammentata, dell'Europa, come al solito irresoluta a tutto.
Massimo D'Alema, il nostro ministro degli Esteri che a Bruxelles ha partecipato alla sessione del Consiglio Atlantico centrato essenzialmente sulla santabarbara balcanica, ha ribadito l'impegno dell'Italia sul fronte della Kfor (la missione guidata dalla Nato). Se servono altri soldati, ha detto sostanzialmente D'Alema, noi siamo pronti a fare la nostra parte. Anche con forze fresche, attualmente «fuori dal teatro».
Un monito alla Serbia, e alle sue centurie di paramilitari che non hanno digerito la batosta subita proprio ad opera della Nato nel '99, e fremono dalla voglia di menare le mani, viene dal segretario generale dell'Alleanza Atlantica, Japp Hoop Scheffer. «Agiremo contro chiunque tenti di ricorrere alla violenza», ha detto Scheffer. E ha aggiunto: «Indipendentemente dalla soluzione relativa al suo statuto, il Kosovo deve restare un luogo dove i kosovari albanesi, i serbi e gli altri possano vivere insieme, liberi dalla paura e liberi dall'intimidazione. E noi siamo determinati a giocare un ruolo».
La Nato «risponderà in modo risoluto ad ogni tentativo di compromettere la sicurezza di ogni cittadino del Kosovo», ribadiscono i ministri riuniti a Bruxelles; ma non è facendo la faccia feroce che si riuscirà a far digerire a Belgrado quest'ultimo boccone indigesto. Né aiutano a rasserenare gli animi le parole del segretario di Stato Usa, Condoleezza Rice, secondo la quale «prendere la decisione che dobbiamo prendere non nuoce di certo alla stabilita». Laddove la decisione da prendere, secondo Washington, è quella di concedere l'indipendenza agli albano-kosovari.
Ed è qui, in questo minuscolo cortile dei Balcani, che rischia di approfondirsi la rinata rivalità fra Stati Uniti e Russia, che avversa fieramente il distacco del Kosovo dalla Serbia. «Se la comunità internazionale accettasse l'indipendenza unilaterale del Kosovo - ha minacciato ieri il ministro degli Esteri di Mosca Sergei Lavrov - si avventurerebbe su un cammino molto scivoloso, dalle conseguenze poco prevedibili per la stabilità dell'Europa». Il precedente, avverte non senza buone ragioni Lavrov, innescherebbe un meccanismo a catena non solo fra le repubbliche caucasiche della Russia, ma anche in Europa, dove le spinte centrifughe non mancano.
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