«Sul palco do voce ai dubbi di Gesù»

Per descrivere il suo rapporto con il teatro, Glauco Mauri usa belle metafore dal sapore agreste. Recitare è un tentativo di «arare la sensibilità del pubblico» di «lasciare un solco per scongiurare l’aridità interiore». Il teatro stesso «sta alla vita come il vino sta all’uva»: è un distillato degli aspetti più poetici e inebrianti dell’esistenza. Non c’è traccia di retorica in queste affermazioni. Mauri le pronuncia dall’alto dei suoi cinquant’anni di attività scenica (è entrato in Accademia nel ’49), ma senza ergersi a «grande vecchio», rifiutandosi anzi di incarnare lo stereotipo del celebre attore che si concede con parsimonia. Anche oggi, a settantanove anni appena compiuti, gira l’Italia con la compagnia che ha fondato nel 1981 insieme a Roberto Sturno. Tiene centinaia di repliche ogni anno, molte delle quali in piccole città di provincia. Da oggi a domenica sarà al Franco Parenti con «Il vangelo secondo Pilato» di Eric-Emmanuel Schmitt, nell’ambito di una rassegna ironicamente dedicata ai «Ragazzi terribili» del teatro italiano (tra gli altri Giorgio Albertazzi, Paolo Poli e Adriana Asti).
Come si sente nei panni del ragazzo terribile?
«Per la verità io mi sento addirittura un bambino dai capelli bianchi. Scherzi a parte, so che provare le emozioni che provo io, facendo teatro, è un grande privilegio. Ma so anche che è una grande responsabilità, so che posso suscitare negli spettatori inquietudini e desideri che condizionano la loro vita. Da giovanissimo mi è rimasta impressa questa frase di Brecht: “Tutte le arti contribuiscono all’arte più grande, che è quella del vivere”. Ogni volta che salgo sul palcoscenico mi rendo conto di quanto sia vera».
Una splendida frase, di cui però si ricordano in pochi. Ormai, nel dibattito sul teatro in Italia, si parla soprattutto di strutture, organigrammi e finanziamenti. Quasi mai di poetica...
«Tutto è cominciato negli anni Ottanta, quando si disse che i direttori dei teatri dovevano essere dei manager. Io ho sempre sostenuto che il direttore deve essere una figura competente e sensibile, a cui ovviamente va affiancato un abile amministratore. Ma niente confusioni di ruoli».
E la polemica sul FUS? Non si è un po’ esagerato con le lamentele, con le minacce di bancarotta qualora i fondi venissero tagliati? Davvero il teatro non può reggersi sulle proprie gambe?
«Non nascondiamoci la verità: senza fondi pubblici non è possibile produrre nessuno spettacolo di qualità, o perlomeno non lo si può portare in giro per l’Italia. Le faccio un esempio. Due anni fa Roberto Sturno e io abbiamo messo in scena il “Faust” di Goethe. La nostra tournée ha toccato decine di piccole città, da Orvieto a Cavalese, con teatri sempre pieni. Ma nonostante il successo, la maggior parte dei ricavi se n’è andata in spese di trasporto. Se non si finanzia il teatro, è impossibile portare Goethe nelle piccole località di provincia».
Lei fa l’attore dai primi anni Cinquanta. Come è cambiata da allora questa professione e come vede il presente degli attori, soprattutto giovani?
«Quando ho cominciato io era tutto più difficile. Un attore aveva quasi esclusivamente il teatro come fonte di sussistenza: il cinema e la televisione erano ambiti lontani e riservati a pochi. Oggi, tra fiction e pubblicità, si hanno molte più possibilità di sopravvivenza. Ma poiché sopravvivere non è vivere, chi recita per dare un senso alla vita non può che calcare un palcoscenico».
Perché? Cos’ha di speciale il teatro rispetto ad altre forme di spettacolo?
«Permette di comunicare un’emozione da uomo a uomo, direttamente, senza uno schermo in mezzo. Oggi questo contatto empatico tra esseri umani non è forse un evento tra i più rari e significativi, di quelli che lasciano un’impronta indelebile nelle persone?»
È per questo che lei, a differenza di altri grandi attori di teatro della sua generazione, ha fatto poco cinema e televisione?
«Diciamo che non mi sono mai particolarmente impegnato per apparire sul piccolo o grande schermo. Alcune offerte a suo tempo le ho rifiutate perché non le trovavo convincenti. Poi hanno smesso di farmele. Comunque sono stato fortunato: le mie rare partecipazioni sono state in produzioni di qualità. Ho interpretato personaggi complessi e appassionanti in sceneggiati come “I Buddenbrok” o “I demoni”. Al cinema ho avutola fortuna di lavorare con Bellocchio in “La Cina è vicina” e con Moretti in “Ecce bombo”. E poi c’è “Profondo rosso”...».
Profondo rosso?
«Davvero non lo sa? Dario Argento mi volle in una parte fra le più truculente del film. Io interpreto il professor Giordani, il personaggio che viene ucciso in modo particolarmente feroce non appena ha la certezza di chi è l’assassino...»
Nel «Vangelo secondo Pilato» a lei tocca invece di dar voce ai dubbi di Gesù...
«È proprio così: do voce ai suoi dubbi. Il testo di Schmitt ci parla di un Gesù dubbioso sulla sua stessa natura di figlio di Dio.

Ma ci dona la bellissima consapevolezza che “credere e dubitare sono la stessa cosa. Solo l’indifferenza è atea”.
E lei, da questo punto di vista...
«Io ho molti dubbi. Ma di una cosa sono certo: non sono indifferente».

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