Sulla legge Biagi la sinistra è senza dignità

Pietro Mancini

Dignità e decoro. Con la solita aria di arrogante superiorità, il nuovo ministro degli Esteri Massimo D’Alema ha rimproverato a Berlusconi e a Casini di non averne. Ma allora perché lo stesso D’Alema e tanti deputati della sinistra non hanno dimostrato queste qualità nel dibattito sulla fiducia al governo che si è svolto alla Camera, quando è toccato al leghista Roberto Maroni, ex ministro del Welfare, sollecitare i colleghi della sinistra ad alzarsi in piedi per onorare la memoria di Marco Biagi, trucidato a Bologna dagli spietati brigatisti rossi il 19 marzo del 2002? «Perché non si alza, onorevole D’Alema, e perché non applaudite in memoria di Biagi, di cui molti di voi non hanno il coraggio di pronunciare il nome?», ha chiesto l’esponente del Carroccio ai parlamentari di sinistra (progressisti a parole ma rigidamente conservatori sulla questione cruciale del mercato del lavoro).
In realtà, l’imbarazzo di larghi settori della sinistra sul nome e soprattutto sulla legge elaborata dal giuslavorista massacrato dalle Br, e di cui il presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo ha chiesto la conferma, dimostra quanto siano sterili e strumentali gli inviti al dialogo, che Prodi - elogiato da Napolitano in una molto discutibile esternazione sul settimanale francese L’Express - e alcuni esponenti della nuova maggioranza rivolgono, salvo a ritrattarli il giorno dopo, alla Casa delle libertà.
Il Professore e i leader riformisti dell’esecutivo avevano affermato, dopo le elezioni, di non nutrire «intendimenti inutilmente distruttivi» e di non voler operare «fratture inutili» con i provvedimenti varati dal precedente governo. La speranza è che adesso recepiscano i consigli degli imprenditori. Gli stessi che giovedì hanno accolto freddamente i generici e vaghi elenchi del Professore. A poco vale l’impegno di Veltroni che, dedicando una strada della capitale a Marco Biagi, ha riconosciuto che «la flessibilità ha contribuito a facilitare l’accesso di tanti ragazzi al mondo del lavoro».
Sul destino della legge Biagi i riformisti della Quercia, della Margherita e della Rosa nel Pugno dell’eccessivamente timido, silenzioso e troppo «pannellizzato» Boselli, se solo smettessero di pensare solo a occupare i (pochi) strapuntini rimasti vuoti, potrebbero giocare un’importante partita, bocciando le aspirazioni dei comunisti e dei massimalisti. Sono loro che, all’interno della pletorica compagine di Prodi, hanno sollecitato la cancellazione di quella che, quasi con disprezzo, definiscono la «legge 30».
Il ministro D’Alema, invece di salire in cattedra in tv contro quanti ne hanno contrastato con successo l’ascesa al Quirinale, dovrebbe dimostrare di possedere quel decoro, quell’autonomia dai poteri esterni alla politica e quella dignità che giudica tanto carenti negli avversari.

Come? Innanzitutto, rifiutandosi di subire i diktat anti-Biagi dell’estrema sinistra, politica e sindacale, e salvando, oltre all’innovativa legge del coraggioso professore emiliano, anche quelle minime condizioni di riformismo maturo, la cui presenza purtroppo scarseggia nel bagaglio di quanti aspirano a rappresentare la sinistra moderna, mettendo da parte le velleità e le mode dei tanti aspiranti (spesso piuttosto comici) «Zapateri» e «Zapatere» nostrani. Ci riferiamo a quei ministri, demagogici e chiacchieroni, che a molti, e non solo all’editorialista di Repubblica Francesco Merlo, più che il premier spagnolo ricordano delle «rissose comari».

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