«Lei teneva le labbra appena aperte e cominciava accuratamente a distruggere la linea che sembrava così caratteristica della docilità e del riserbo. Dalla bocca, cambiò tutto ciò che il matrimonio e la vita con Frank avevano formato. Una bocca libera, rossa, sicura e appena un po’ insolente». Così inizia il racconto The Lipstick Mood pubblicato sulla rivista Woman and Beauty nel gennaio del 1931. Quella pasta color melagrana che poi, negli anni, si fece di tonalità più livide, per poi tornare talmente sgargiante da riuscire a evidenziare un’intera personalità, si era appena affacciata sul desiderio di emancipazione delle donne. E da quella sottile linea rossa non si tornò mai più indietro. Perché ci sono due modi, da donna, per imporsi: fare la femmina o dimenticarsi di esserlo.
Prima del rossetto, erano state le pellicce a coprire gli abiti di seta morbida, la scoperta delle cure ginniche per modellare il corpo, della tintarella per tingersi la faccia di salute, dei lassativi per dimagrire, del profumo per lasciar firmata l’aria, delle unghie rosse per affrancarsi dalla vita graffiando, delle ciglia finte per esercitare il potere di uno sguardo che, improvvisamente, aveva nuovi orizzonti, della voglia di viaggiare, del lusso sfacciato e luminoso, delle dive di Hollywood a cui ispirarsi. In una parola: il glamour. Ciprioso, brillantinato, ben odoroso e tutt’altro che soffice termine sotto al quale si costruiva, perlina dopo perlina, velo di chiffon dopo velo di chiffon, coda di marabù dopo coda di marabù, l’inarrestabile evoluzione della donna. Perché il glamour ha solleticato le aspirazioni. Perché in nome del glamour si sono infrante le regole, perché per il glamour ci si è imposte.
È stato il glamour a trasformare le donne in femmine. Come spiega mirabilmente il libro di Carol Dyhose Glamour, una storia al femminile (Donzelli, pagg. 185, euro 26). Un saggio che vendica uno dei termini più abusati e svuotati della storia. Mettendolo orgogliosamente in copertina e restituendogli la dignità che merita. Attraverso le grandi donne (dagli anni Trenta ai giorni nostri), le loro fondamentali eccentricità, la loro capacità di osare, attraverso i loro corsetti, i loro globuli biondi, il loro cattivo carattere, i loro capricci tutt’altro che futili. Un saggio a cui, scrivendone, si teme solo di poter far torto.
Da Marlene Dietrich a Brigitte Bardot, da Joan Crawford a Audrey Hepburn, da Zsa Zsa Gabor a Madonna, da Marilyn Monroe («una che ha sempre avuto troppa fantasia per essere solo una casalinga») e a quella sua interpretazione «tutta pelle e perle» di Happy Birthday, Mr. President che è stata forse uno dei momenti più alti della classica celebrazione hollywoodiana del glamour, a Courtney Love «con quel look da puttana dell’asilo» fatto di pizzo lacerato, jeans sbiaditi e Doc Martens.
Dagli abiti maschili della Dietrich («In lei c’è molto sesso, ma non un sesso in particolare» disse di lei Kenneth Tynan) alle vacanze a Capri, alla Vespa e al cappuccino, dagli anelli alle orecchie di Audrey, dalle calze a rete al New Look di Dior, dalle ballerine della Bardot, ai fiocchi in testa di Madonna: a ogni epoca il suo feticcio, la sua rottura fatta di stracci e fondotinta.
Al glamour si sono aggrappate milioni di donne che, come eserciti apparentemente disarmati, sono entrate nella loro lotta con le unghie laccate e, finalmente, per nulla schizzinose. Perché il glamour è eccentrico, spregiudicato, prepotente ed eversivo. E ha soffiato su una silente rivoluzione che si è mossa sui tacchi a spillo.
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