Il tango di Simeone allenatore comincia subito dal casqué

Il meticcio Simeone ha rimesso piede nel calcio nostrano ed è subito caduto (2-0, gol parmigiani di Candreva e Giovinco) proprio laddove il suo compatriota Daniel Passarella, el capitano de l’equipo mundial, tolse il disturbo ricevendo cinque, diconsi 5 miliardi di lire dopo un mese e dodici giorni di lavoro. Calisto Tanzi, dopo colloquio con Ceresini, liquidò la pratica del bond argentino, quello calcistico in attesa dell’altro, e affidò al figlio Stefano di annunciare all’allenatore che era scaduto il tempo. Storie diverse e romantiche degli argentini in Italia. Storie antiche di Renato Cesarini, quello dei gol nei minuti finali, della belle epoque tra tabarin e denari in nero, storie di tabacco, carte e whisky di Bruno Pesaola: «Ramon Diaz? Viene da un paese dove non parlano, fischiano!», frasi da amici miei, riferisco quella di Claudio Borghi che era il pupillo di Berlusconi, un po’ meno di Sacchi: «El futbol es como el sexo, todos pensamos que lo hacemos muy bien», tutti davvero riteniamo di farlo e di giocarlo bene.
Su tutti proprio gli argentini, da Pedernera a Sivori, a Di Stefano che si è fatto costruire una palla in pietra e l’ha collocata nel giardino, con la dedica: «Riposa tranquilla, vecchia mia». La moda sudamericana, argentina in particolare, da sempre affascina, in ogni dove del mondo calcistico. E’ la favola antica, non è triste e solitaria come i birignao di Soriano, è roba dolce e forte assieme, es odio y amor, come dice Juan Sebastian Veron. Vennero Lorenzo e Carniglia, che Agnelli licenziò dalla Juventus mentre Luis stava giocando a tennis allo sporting club di Torino, vennero i flop a Roma di Carlos Bianchi, pronunciato Bianci, come Demicelis, da loro che non hanno l’acca, ma l’araldica è italianissima; l’altra delusione a Genova con la Sampdoria, del flaco, lo smilzo Menotti che almeno ha il merito di aver vinto il mondiale (di Videla) e di avere pronunciato la seguente frase perfida nei confronti di Carlo Bilardo: «Il calcio è così generoso che ha evitato a Bilardo di dedicarsi alla medicina». Hector Cuper all’Inter fu una promessa e una premessa mancata, macinato da Ronaldo, dal proprio cappotto grigio come la faccia che si porta appresso. Non dimentico Oscar Montez che passò da Palermo, come Antonio Valentin Angelillo. Non sarebbe da trascurare Julio Velasco, nella disciplina della pallavolo ma anche con la variazione folkloristica e morattiana dell’Inter e, ovviamente, Helenio Herrera che di argentino aveva tutto e niente, passato dal Marocco alla Spagna e mai conoscendo bene l’esatta origine e data di nascita.
Scriveva Brera che gli argentini sono italiani che parlano bene lo spagnolo e pensano di essere inglesi. E’ questa la loro carta di credito, è questa la loro magia, il gioco delle tre carte che incanta e ti svuota le tasche. Diego Simeone, detto El Cholo, il meticcio appunto, è arrivato sull’isola siciliana sognando di risalire l’Italia verso Roma, dove lo aspettano quelli della Lazio, e poi Milano, dove hanno memoria bella, tranne i brasiliani.

Perché un argentino che insegna football a un brasiliano, per la gente del pan de Azucar, è una bestemmia anche se, nel mondiale del ’78, dopo lo 0 a 0 che eliminò i verde oro, il pubblico della Bombonera di Baires prese a cantare: «que lindo, que lindo que va ser! Nosotros con la copa, Brasil con el cafè!». Lo sbarco continua. Dice un proverbio argentino: «I messicani discendono dagli aztechi, i peruviani dagli incas, noi argentini dalle navi».

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