"Tante idee, poca visibilità, troppa luganega"

Il presidente della Marsilio Cesare De Michelis: il Triveneto è sospeso tra la secolare vocazione globale e un marcato localismo. Per questo Venezia non diventa metropoli e la cultura non fa sistema: eppure i presupposti non mancano

"Tante idee, poca visibilità, troppa luganega"

Il Nordest vilipeso, dimenticato, cementificato. Il Nordest dove sono tutti ricchi e cattivi, il Nordest dove Venezia è triste e tutto il resto è come Mestre quando piove, o peggio. Il Nordest che è tutto una lunghissima statale Pontebbana, centri commerciali alti e capannoni bassi, dove chi sogna vuol fare il tronista e chi non sogna spera di avere abbastanza curve per schiantarsi. Il Nordest che, per coincidenza di opposti, è un po’ il Far West con i sindaci sceriffi che fan le ronde e i «muri». Ecco alcuni dei luoghi comuni relativi al pezzo d’Italia che vive di piccole imprese e muore di cattiva fama e di dimenticanza, quella dimenticanza che fa sì che i quotidiani se ne occupino solo quando ci scappa il morto in villa o la coda autostradale del secolo per andare in Croazia. Sono i luoghi comuni che ha messo sotto accusa Gian Mario Villalta in Padroni a casa nostra. Un saggio che racconta l’altro Nordest. Quello che legge, quello che è andato oltre al metal-mezzadro e che, sospeso tra localismo e globalizzazione, cerca una sua via verso il futuro. Mentre il passato gli si è incenerito alle spalle, in troppo poco tempo.

Sugli stessi temi abbiamo sentito il parere di Cesare De Michelis, uno dei «padri» della cultura del Nordest, l’uomo che dirige la Marsilio, l’unico editore veneto che sia riuscito a darsi un carattere nazionale.

Che ne pensa del saggio di Gian Mario Villalta? Davvero a Nordest siete tutti antipatici?
«Il libro ha degli spunti interessanti, ma rischia di semplificare troppo le cose. Qualche anno fa anche Gian Antonio Stella con un saggio intitolato Schei. Dal boom alla rivolta cercò di raccontare la vorticosa ascesa economica ma si impantanò... Non è questione di antipatia... Semmai il vero limite è che siamo afflitti da una sorta di “zanzottismo”, dall’idea che un tempo siamo stati poveri ma belli, siamo avvelenati dall’illusione che in Veneto si stesse meglio prima... Questa condizione arcadica non è mai esistita e, se ce la ridessero, nessuno la sopporterebbe per più di venti minuti... E un po’, secondo me, la rimpiange anche Villalta».

Più che rimpiangere qualcosa, mi sembra che Villalta sostenga che in Veneto c’è una generazione «perduta», culturalmente dispersa, quella dei 50-60enni. Anche a livello letterario...
«Questo è vero, c’è una generazione che letterariamente ha prodotto poco, ed è la mia. Ma questo vuoto non è una questione veneta, è una questione italiana. È colpa del “Gruppo 63” che ha trasformato un’intera generazione in avanguardisti che hanno snobbato la letteratura. Ci ha fatto diventare tutti sociologi... E nel Triveneto, che aveva una splendida tradizione letteraria, il vuoto è risultato molto evidente».

Ma allora come si spiega la distanza e «l’antipatia» del Nordest verso il resto del Paese?
«Il Veneto ha avuto alcune “sventure”, come l’essere annesso all’Italia con sei anni di ritardo. Questo ritardo ci è costato l’ira di Dio, è stato l’ingresso in un corpo già formato. E dopo siamo sempre stati un territorio di confine. Questo ha avuto un prezzo ulteriore».

Ma ci sarà un limite culturale imputabile ai veneti e solo a loro?
«Sì, l’assoluta mancanza di letteratura al femminile. La nostra società è rimasta a lungo patriarcale e se tutti si ammazzavano di lavoro la donna si ammazzava due volte. Questo è un ritardo tutto nostro. Come è tutta nostra la tendenza alla frammentazione, al localismo. È il retaggio dello scontro fra Terraferma e Serenissima».

E gli effetti durano ancora?
«C’è una grande difficoltà ad autorappresentarsi, a darsi una visibilità nazionale...».

In che senso?
«Faccio un esempio. Il più grande quotidiano del Veneto è Il Gazzettino. Bene, è il meno nazionale dei grandi quotidiani locali. Il Veneto, dai tempi di Marco Polo, è una realtà economica proiettata sul mondo. Siamo globali da quasi un migliaio di anni. Ma quando dobbiamo esprimerci, invece di puntare alla “Grandeur veneta” scegliamo di fare la cronaca di Portogruaro. Il Gazzettino è vittima di questo localismo. In Piemonte si leggono meno libri che in Veneto. Eppure la più grande casa editrice veneta è la Marsilio. Non ne posso menar vanto, a livello nazionale siamo piccoli... Abbiamo perso anche l’occasione di creare una città che sia un vero polo urbano...».

E Venezia?
«Non è una metropoli. Ora sta tornando a essere una vetrina importante, ma non è una metropoli. È mancata una regia dello sviluppo che convogliasse le energie. Noi siamo riusciti, e di questo dobbiamo essere orgogliosi, a creare un’imprenditoria diffusa. Ma adesso bisogna ripensare il territorio, eliminare la frammentazione. Insomma, tra le due polarità della nostra storia, cioè la chiusura in noi stessi e l’apertura al mondo, è necessaria una scelta. Ma ciò comporta ricevere anche le risorse per farla... Io ho sempre discusso, sin dalle origini, di questo tema con i leghisti di cultura. Le nostre radici sono Palladio, Bembo, l’editoria di Manuzio e le merci esportate in tutto il mondo, oppure è la luganega? Io non ho dubbi».

Eppure molti veneti sembrano rimpiangere proprio una dimensione fortemente locale. Il «padroni a casa nostra» è il sintomo più evidente di questa tendenza.
«C’è una tensione interna fortissima. Questo è il problema. C’è stato uno sviluppo velocissimo che ha bruciato le radici... Così, se l’imprenditore vuole avere l’immigrato per farlo lavorare nella sua fabbrica, la maestra e i genitori stanno, invece, sulla barricata di chi non vuole vedere una classe con venti bambini e sette lingue. E i giornali, spesso, enfatizzano questo secondo versante. Ma il Veneto è la “INNOVeTION VALLEY”, è la Biennale, oppure l’Arena di Verona. Invece, finito lo spazio delle eccellenze, se uno vuole andare da Venezia a Padova deve fare tre biglietti e usare almeno tre mezzi pubblici per spostarsi di pochissimi chilometri. Ecco gli effetti della frammentazione! Ecco cosa fa arrabbiare la gente e la rende antipatica».

È per questo che ha spostato la casa editrice da Padova a Venezia?
«Non solo. L’ho spostata perché quando nacque era una casa editrice pensata sull’università, poi dopo è diventata un’altra cosa e io a Venezia mi oriento meglio.

L’importanza di Venezia come vetrina, a molti imprenditori è ormai evidente, ma per anni la si è considerata solo una costosa eredità. Se Padova deve funzionare, deve funzionare assieme a Venezia, Treviso e Portogruaro».

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