Medicina

Una task force contro Crohn

Luigi Cucchi

Gli italiani che soffrono di colite ulcerosa e di malattia di Crohn, malattia infiammatoria che colpisce l’apparato digerente (il nome le viene da Bernard Crohn medico di New York che per primo la studiò negli anni Trenta), sono in aumento e sfiorano le 500mila unità. «Fino agli anni Settanta queste malattie erano poco diffuse, il loro sviluppo è determinato da numerosi fattori, ma anche dalla natura dei cibi e dalla conservazione degli alimenti, dallo stress che negli animali favorisce una modificazione della flora intestinale, dall’eccessiva igiene che impedisce a molti bambini di sviluppare gli anticorpi che dovrebbero ostacolare gli agenti infettivi che attaccano l’ intestino», afferma il professor Massimo Campieri che dirige il Centro di studi e cura per le malattie infiammatorie croniche intestinali del Policlinico Sant’Orsola dell’Università di Bologna.
Un centro di eccellenza istituito negli anni Ottanta dai professori Luigi Barbara, un padre della gastroenterologia italiana, e dal chirurgo Giuseppe Gozzetti. Entrambi avevano compreso l’importanza dell’approccio multidisciplinare per la cura delle malattie digestive, basato sulla integrazione tra medicina e chirurgia. Da anni al Sant’ Orsola, tutti i pazienti che soffrono di infiammazioni croniche intestinali, vengono curati non solo da un team chirurgico e da uno medico, fin dalla prima visita, ma anche da psicologi e dietologi. Le scelte terapeutiche sono condivise da tutti i medici. Sono globalmente assistiti oltre 5mila pazienti con colite ulcerosa e malattia di Crohn, che provoca anche emorragie, restringimento del tratto intestinale, occlusioni, perforazioni, ascessi.
«Con oltre 500 interventi di ileo-ano-anastomosi, cioè di asportazione totale del colon, siamo il terzo centro europeo, dopo Londra, con mille interventi, e Goteborg con 700. In Italia il secondo centro è Firenze (150 interventi). A Bologna oltre l’80% dei pazienti proviene da altre regioni», afferma Gilberto Poggioli, che dirige il team chirurgico, ricordando che ad almeno il 95% dei pazienti è assicurata una buona qualità di vita.
La colite ulcerosa e la malattia di Crohn vengono curati in fase iniziale con gli aminosalicilati che hanno limitata efficacia. Quando i sintomi persistono si ricorre ad un potente antinfiammatorio come il cortisone, ma solo per un tempo limitato a causa dei gravi effetti collaterali irriversibili. Si usano anche gli immunosoppressori, che richiedono un tempo abbastanza lungo prima di agire. Le forme più severe sono aggredite da nuovi farmaci biologici. «Grazie alla biologia molecolare – precisa il professor Campieri - è stato individuato un fattore che amplifica l’infiammazione (TNF-alfa). Lo combattiamo con un nuovo principio attivo biologico (infliximab) soprattutto nei pazienti che non rispondono alle terapie tradizionali. Questo principio attivo è un anticorpo monoclonale che produce la distruzione delle cellule che esprimono le citochine e ripristinano la morte cellulare programmata (apoptosi) dei linfociti T che si trovano nella parete intestinale. Con questo innovativo approccio terapeutico è possibile guarire la mucosa intestinale in molti pazienti, mantenere sotto controllo la malattia, evitare o ridurre le ricadute, diminuire il numero di ricoveri ospedalieri e gli interventi chirurgici. Negli Stati Uniti si è iniziato ad impiegare questi farmaci biologici nel 1998 per solo uso compassionevole, quando si ebbe la certezza che potevano bloccare la cascata infiammatoria. Ad alcuni pazienti lo abbiamo somministrato anche direttamente nelle fistole con risultati positivi.

I farmaci biologici si sono dimostrati efficaci anche nelle coliti ulcerose».

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