Economia

Tasse più alte sulla Borsa? Bonanni segna un autogol

Il segretario della Cisl chiede maggiori imposte sulle rendite finanziarie. L’Italia rischierebbe l’effetto Grecia: crollo dei mercati, capitali in fuga

Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl, che di solito è un sindacalista equilibrato commette un grosso errore chiedendo l’aumento della tassazione delle rendite finanziarie dall’attuale 12,5% a un maggior livello non precisato. Probabilmente si riferisce alla proposta di cedolare secca del 20% anziché del 12,5% sostenuta da Visco, Padoa Schioppa e Prodi. Era, quando fu fatto, un progetto sbagliato. Adesso sarebbe demenziale. Genererebbe per il nostro debito, un «effetto Grecia» ponendoci fra i Paesi a rischio dell’area euro. Infatti farebbe cadere in Borsa le quotazioni del nostro debito pubblico e delle obbligazioni e deprimerebbe il mercato azionario. Ci sarebbero anche nuove fughe di capitali perché ciò sarebbe interpretato come un segnale che si vogliono colpire i patrimoni.

La crisi economica che ci ha colpito, per cause finanziarie di origine internazionale ha fatto risalire oltre il 110 per cento il rapporto fra il nostro debito pubblico e il nostro Prodotto interno lordo (Pil) che stava scendendo sotto il 100%. Ciò rende maggiore di prima l’esigenza di proteggere il risparmio, che sta alla base della aliquota del 12,5% sulle rendite finanziarie. D’altra parte la crisi internazionale ha generato un enorme deficit degli Usa in dollari, un enorme deficit del Regno Unito in sterline, un grosso deficit della Spagna, della Grecia, del Portogallo e dell’Irlanda e un incremento di deficit della Francia, della Germania, dell’Austria e di altri Stati dell’area euro, oltre al nostro. Ed ora il mercato mondiale è inondato di maggiori offerte di titoli pubblici, mentre la domanda non è aumentata di altrettanto, in termini strutturali. Essa è tenuta in piedi da fattori congiunturali. Cioè la bassa offerta di titoli di nuova emissione degli operatori di mercato, dovuta alla crisi, che riduce gli investimenti e il basso tasso di interesse praticato dalle banche centrali, che facilita l’assorbimento di questi titoli da parte delle banche e degli altri operatori finanziari. Ma quando l’economia sarà a ritmo normale, questi fattori svaniranno. E perché la domanda pareggi l’offerta occorrerà che ci siano adeguati risparmi. Sicché bisogna favorire il risparmio, con la tassazione, non deprimerlo.

In Italia non si è fatta una politica contro il risparmio e a favore del consumo a debito, come in Spagna, Regno Unito, Grecia, Portogallo, Irlanda e Usa. Così abbiamo retto meglio allo tsunami della crisi, benché avessimo un rapporto debito pubblico/Pil peggiore della media Ue. Vogliamo invertire la rotta e scoraggiare il risparmio, proprio adesso che si rende più necessaria la politica per la protezione del risparmio? I ragionamenti economici ci dicono che la proposta di Bonanni è errata. Ma anche in termini di equità. Essa non regge. Non è vero, come lui sostiene, che i risparmiatori sui proventi delle azioni e sugli interessi del reddito fisso pagano solo il 12,5 e i lavoratori dipendenti, sul reddito di lavoro oltre il 50%, fra imposte e contributi. Infatti i profitti delle società sono tassati presso queste al 27%, inoltre pagano l’Irap del 4,4% medio e ciò fa il 31 per cento. Il 12,5% sui risparmiatori porta il totale al 43,5 per cento.

Inoltre, sulle imprese gravano per i salari lordi, anche contributi sociali pari al 36% medio più una Irap del 6% medio. Ossia il 42%. Gli interessi delle obbligazioni sono tassati presso le imprese debitrici con il 4,4% di Irap e con l’imposta sulle società del 27% per la quota di interessi passivi che colpisce dal 2009. Inoltre gli interessi dei titoli ricevuti dai risparmiatori, per circa la metà, compensano la perdita di valore di titoli dovuta all’inflazione, sicché l’aliquota del 12,5 più il 4,4 di Irap pari al 17% nominale è il 34% effettivo.

Nel ragionamento di Bonanni c’è un altro errore. Gran parte dei lavoratori fortunatamente non sono più i proletari di una volta. Una buona porzione di queste rendite finanziarie sono percepite dai lavoratori. Il loro risparmio è costituito per lo più di titoli a reddito fisso e di azioni di società quotate, che non si possono definire «partecipazioni qualificate». Si tratta cioè di pacchetti di azioni inferiori al 2% che si presume non consentono di partecipare al controllo delle società. Quindi i lavoratori pagherebbero una buona fetta di questo nuovo peso fiscale.

Il problema della riduzione della pressione fiscale sulle famiglie dei lavoratori esiste, ma non lo si può affrontare così.

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