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La tecnologia fa progressi ma spesso non «c’è campo»

Caro Granzotto, sono reduce da una visita ai parenti che risiedono a Livorno e devo segnalare il mio disagio di automobilista per il fatto che nelle gallerie - che il caso vuole si parino davanti sempre quando il notiziario sta dando una notizia interessante - la radio di bordo ammutolisce, e anche il telefonino. Ma è così complicato evitare questo inconveniente? Siamo andati sulla luna e non siamo capaci di assicurare la «copertura» nei tunnel?


Non è che non ne siamo capaci, caro Abati, non vogliamo. O, per essere precisi, lo vogliamo solo per certe gallerie (pochissime), risultate estratte da quella lotteria che è il nostro sistema di trasmissione dei dati. Un sistema, meglio dirlo subito, da Terzo mondo. E non è solo questione di gallerie: chi volesse percorrere la tratta Bolzano-Palermo e rimanere sintonizzato, mettiamo, su Rai Due, sarebbe infatti costretto a cambiare almeno una ventina di volte la lunghezza d’onda, come ai tempi della radio a galena. Ciò dipende dal fatto che avendo perso la guerra (anche se sosteniamo di esser stati semplicemente «liberati»), quando, nel ’48, si ridistribuirono le frequenze a noi, sconfitti, toccarono gli scarti di magazzino. Da allora sono trascorsi oltre sessant’anni eppure, nonostante i vertiginosi progressi nel settore delle comunicazioni, siamo ancora a quel punto. E non va meglio in altri àmbiti. Vantiamo il primato nella telefonia mobile (più di un telefonino a testa, se ho letto bene), però la copertura, il «campo», per intenderci, è quella che è. Vastissime zone della Penisola non sono «coperte» o hanno un segnale debolissimo. In tutte le metropolitane vige il black out telefonico. Nel centro storico della stessa Roma, pur sempre Caput Mundi, il telefonino prende e non prende. Non so quanti amici ho visto appoggiare il proprio cellulare accanto a quella tal finestra, unico luogo dove almeno una tacca del segnale di rete, una misera tacca, compare sullo schermo. E guai a spostarsi di un millimetro: la linea, già di per sé anemica, cade subito. Poi c’è Internet. La Banda Larga superveloce per noi è ancora un sogno e dobbiamo accontentarci di quella dei poveri, l’Adsl. Che come velocità non sarebbe poi male (anche se inferiore alla metà di quella in uso in Francia, Spagna o Germania), purtroppo è disponibile solo nei grandi centri. Peggio va a chi come me capita di soggiornare in campagna. A meno di non avere un allevamento di piccioni viaggiatori, lì l’unica soluzione è la «chiavetta», l’internet key. Un portento di aggeggio che consente di collegarsi alla Rete ovunque ci si trovi. Anche dal cucuzzolo del Monte Bianco. Ovviamente a patto che ci sia nei paraggi un ripetitore. Nel mio caso, la copertura è talmente flebile che per scaricare una pagina del Giornale ci metto mezz’ora. E pensare che tutt’intorno ci son fior di aziende agricole alle quali figuriamoci se non farebbe comodo Internet. E invece vanno ancora avanti a colpi di telefonate e di fax: che è come andare in bicicletta mentre i concorrenti sfrecciano in Ferrari. L’altro strumento principe per la trasmissione dei dati sarebbe il Wi-Fi, ovvero Wireless Fidelity, dispositivi che permettono di collegarsi, senza fili, a reti locali.

Il guaio è che le reti locali non ci sono per cui l'unico Wi-Fi che da noi funzioni è quello domestico, con un raggio di 100 metri. Sempre che non ci sia un muro di mezzo. Insomma, caro Abati, siamo messi proprio male. E siccome il mondo corre su Internet e dintorni, nessuna sorpresa se si resta indietro.

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