Spesso, viaggiando in auto, mi colpisce il pensiero che dentro ogni casa che vedo per strada vivono delle persone, che dentro ogni automobile che incrocio c’è una storia pulsante, viva. Persone e storie che non vediamo, di cui non sappiamo nulla, se non quando le loro storie esplodono in cronaca. Così è per le vittime dei quattro fatti di sangue che in poco più di un mese si sono verificati nella mia piccola regione, tragedie la cui unica costante, se ci fate caso, è il fatto che colgono di sorpresa i vicini: una cosa che sarebbe stata impossibile nel Friuli di un tempo, quando era ancora una comunità coesa in cui, nel bene e nel male, tutti sapevano tutto di tutti. Certo esistono ancora i paesi, i borghi, le frazioni, ma sono pure espressioni geografiche, dietro alle quali spesso manca una vera comunità. La vita di ognuno, in questa regione passata in un arco di tempo troppo breve dalla civiltà contadina all’era del consumo, è ridotta all’individuo, al massimo alla famiglia, diventata l’unico contenitore di ansie, paure e frustrazioni. Un contenitore che spesso scoppia. In questo mondo - ha scritto un poeta russo - morire non è nulla: vivere è di gran lunga più difficile. Vivere in un mondo che si vergogna del suo passato contadino, che non ha più spazio per i poveri e in cui i vecchi sono un vuoto a perdere e non più - come in passato - la spina dorsale della comunità. Vivere a ridosso degli ipermercati colmi di merci scintillanti, in un periodo di festa che accentua ancora di più il divario fra chi ha e chi non ha, fra chi è (o più spesso si finge) allegro e chi è solo.
Non ho idea del perché queste persone abbiano trovato in sé la forza o la disperazione per togliere la vita a se stessi e a chi penso avessero più caro. Non conosco i motivi, e forse non li conoscevano neppure loro: non chi è morto, forse nemmeno chi ha ucciso. Dico solo che ci sono posti in cui dire di no alla vita sembra più facile. Posti in cui l’infelicità esercita una forza d’attrazione irresistibile. Queste nove morti possono avere ragioni diverse: povertà, solitudine, paura del futuro. Ciò che le accomuna è il deserto umano in cui sono avvenute. Il mio Friuli non è più quello di un tempo, e spesso mi chiedo come debba sembrare a una persona più anziana di me, costretta a muoversi a passo lento nell’era dei Suv e di internet. Il Friuli è diventato una periferia senza alcun centro, un territorio freddo e asettico come quello che appare sugli schermi dei nostri navigatori satellitari. Fa più freddo dentro che fuori, in questa terra che ricorda le case ricostruite dopo il terremoto: case che dall’esterno sembrano autentiche, rifatte con precisione maniacale, pietra su pietra, ma che dentro sono spesso gusci vuoti, riempiti da cose che non c’erano, abitati da gente venuta da fuori. Da paure nuove, e da chi, per non doverle affrontare, si rende al tempo stesso Abele e Caino. Tragedie che ci sgomentano, ma più di tutto dovrebbe spaventarci l’indifferenza, la solitudine in mezzo a cui avvengono. Un grande scrittore americano recentemente scomparso, Kurt Vonnegut, riteneva che gran parte dell’infelicità umana si potrebbe curare reintroducendo nel nostro tempo un’istituzione: la famiglia allargata. In Friuli le famiglie allargate non sono una cosa esotica, o del lontano passato: erano vive fino a una generazione fa. Io stesso ne ho fatto l’esperienza, e ne serbo un ricordo intenso e dolce: l’abbraccio della prozia che mi teneva con sé mentre i miei genitori erano al lavoro, i giochi all’aperto con i miei cugini. Provo una grande nostalgia dei tempi in cui la famiglia non si limitava ai genitori e ai figli, ma abbracciava più generazioni, e si estendeva fino a gradi di parentela remoti.
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