In Italia si possono girare film o documentari sui terroristi di sinistra, pubblicarne i libri, firmare appelli per la loro liberazione (come insegna la vicenda Cesare Battisti). Ma, appena qualcuno si mette in testa di indagare il fenomeno del terrorismo di destra, apriti cielo! O, al contrario, silenzio assoluto. Come quello calato su uno dei documentari più belli degli ultimi anni: Giusva. La vera storia di Valerio Fioravanti di Francesco Patierno, il regista del recente Cose dell’altro mondo con Diego Abatantuono. E pensare che giace da più di un mese in libreria insieme all’omonimo volumetto edito da Sperling&Kupfer con i contributi di Andrea Colombo, Nicola Rao, Luca Telese. E dello stesso Patierno che ricostruisce la storia del suo film Banda armata del 1995, sulla coppia Valerio Fioravanti e Francesca Mambro con Giorgio Pasotti e Nicoletta Romanoff, abortito a un mese dalle riprese dal produttore Claudio Bonivento dopo che anche l’Istituto Luce aveva abbandonato il progetto. Nessuno voleva quel film, sia a sinistra sia a destra. E gli stessi Fioravanti e Mambro erano contrari anche per difendere la figlia Arianna dal «pettegolezzo». Patierno cercò poi di ottenere con la sua società di produzione un finanziamento dal Ministero per i Beni Culturali ma, pur raggiungendo il massimo punteggio, l’istanza venne rinviata per tre volte per «verifiche istruttorie», per poi tecnicamente «decadere».
E si arriva ad oggi con questo documentario di cui nessuno sembra voler sapere, tranne i Radicali che hanno in casa Fioravanti e Mambro per via del loro lavoro presso l’associazione contro la pena di morte «Nessuno tocchi Caino»: «Lungi da me qualsiasi vittimismo - spiega Francesco Patierno al Giornale - ma più passa il tempo e più mi rendo conto di come il nostro ambiente sia intriso di una forte quanto ridicola e decadente ideologia con intellettuali che non si mettono mai in discussione. Ho inviato il mio lavoro sia al festival di Venezia che a quello di Roma ma, per un motivo o per un altro, non è stato preso in considerazione». Anche se le motivazioni sembrano prescindere da un giudizio estetico: «Mi sono reso conto che esiste un tabù sul terrorismo di destra. Ed è triste constatare che non c’è spazio in Italia per storie difficili, per un cinema che indaga la realtà, anche quella scomoda», teorizza il regista che al cinema ha esordito con il duro Pater familias.
Perché è indubbio che la storia di Giuseppe Valerio Fioravanti, detto Giusva fin dai cinque anni quando recitava nelle réclame di Carosello, è una di quelle che mette paura con quella lunghissima teoria di morti ammazzati. E la soluzione narrativa adottata da Patierno scuote nell’intimo lo spettatore: è tutto un alternarsi tra le immagini di un innocente Giusva, indimenticabile nel ruolo del piccolo Andrea, il figlio che ogni mamma avrebbe voluto de La famiglia Benvenuti, lo sceneggiato che nel fatidico 1968 divenne un vero e proprio fenomeno di costume, e quello di dieci anni dopo nei panni - stavolta maledettamente reali - del terrorista più ricercato d’Italia. Le cui motivazioni omicide sono anche molto familiari: in primis il ruolo del fratello minore Cristiano che - lo dice Fioravanti nell’intervista a chiusura del documentario - «aveva sposato la causa dei più dannati tra i ribelli», così come una sorta di «tradimento» del Movimento Sociale Italiano accusato di non difendere i militanti colpiti. E oggi mette i brividi sentirlo domandare - nella parte di fiction - al padre Enrico Maria Salerno: «Ma a che età uno lo possono mettere in prigione?». La risposta dapprima veloce e infastidita, come s’usa per le domande adulte dei bambini («Ah!... ma dai dormi! Dormi va’»), si fa poi particolarmente precisa: «Comunque la cosa che importa non è quella di andare in prigione... capito Andrea?... Cioè non è l’idea di pagare, capito?... La cosa più importante è la nostra coscienza, capisci?». Ed è in nome di questa coscienza che il lavoro di Patierno prende una posizione forte su un tema controverso, e anch’esso tabù, come la strage di Bologna. Strage per la quale Fioravanti e Mambro sono stati condannati dalla Cassazione all’ergastolo come esecutori materiali, pur essendosi sempre dichiarati innocenti.
«Io sono convinto della loro estraneità. Per me e per tantissime persone, molte delle quali di “sinistra”, il processo di Bologna è stato un processo politico», conclude Patierno con l’onesta, anche artistica, che lo contraddistingue.
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