Ci fu unepoca in cui in Italia si predicava il sorgere di un Secondo Rinascimento. Lepoca in cui un calabrese di Agromastelli che aveva studiato tra Palermo, lUniversità Cattolica e Parigi (con Jacques Lacan) divenne lintellettuale di riferimento della Milano - e dellItalia - che contava: era Armando Verdiglione, oggi filosofo inascoltato e silenzioso organizzatore di eventi culturali, ieri inarrestabile padre-padrone del «Movimento freudiano internazionale», editore, scrittore, conferenziere e vulcanico manager del pensiero che rivoluzionariamente proclamava: «Gli industriali sono i nuovi poeti, i banchieri i nuovi letterati, gli assicuratori i nuovi intellettuali». Era lepoca, che coincideva con gli anni Ottanta, in cui Verdiglione catalizzava attorno alla sua «Fondazione di cultura internazionale» con sede nei mega-uffici su piazza Duomo e nella principesca Villa San Carlo Borromeo a Senago una corte di scrittori, scienziati, artisti, filosofi, e poeti. Come Eugène Ionesco, Bernard-Henry Lévy, André Glucksmann, Fernando Arrabal. Come Jorge Luis Borges, il Grande Vecchio, lOmero del Ventesimo secolo, lamico argentino a cui Armando Verdiglione a metà degli anni Ottanta chiese di presenziare ai grandi convegni promossi dalla sua «Università internazionale del Secondo Rinascimento». E così, Borges fu accanto a Verdiglione a Tokyo, nellaprile dell84, per il celebre congresso «La sessualità: da dove viene lOriente, dove va lOccidente?», e a Milano, nel dicembre 1985, pochi mesi prima di morire (accadde a Ginevra, nel giugno dell86) per un ciclo di conferenze di due settimane durante le quali parlò - da Maestro - del potere della poesia, del sublime piacere della lettura, della differenza tra il presente che viviamo e il futuro che dobbiamo costruire, del senso stesso dellesistenza: «Io posso morire in qualsiasi momento. Ma vivo pensando, anche se è unillusione, che sono immortale. Forse, non si può vivere in altra maniera. Conviene vivere nel futuro. Conviene vivere generosamente». Quelle parole, tra le ultime pronunciate in pubblico da Borges, sbobinate e trascritte, insieme a decine di fotografie scattate in quei giorni, sono state raccolte e saranno pubblicate il prossimo mese in una nuova edizione dalla casa editrice del suo vecchio amico Verdiglione, Spirali, col titolo Una vita di poesia. Quasi settecento pagine che costituiscono una sorta di testamento spirituale.
Davanti a Borges, ormai completamente cieco, sfilò in quei giorni gente comune e gente meno comune, come il filosofo Vittorio Mathieu, lo scrittore russo Viktor Nekrasov, il giornalista Ennio Cavalli, Mimì Piovene o Marcello Staglieno, il drammaturgo spagnolo Fernando Arrabal (che su Borges a Milano girò poi un famoso documentario) e intellos vari. Tutti lo ascoltarono, tutti gli chiesero qualche cosa. E a tutti un Borges ironico e impenitente, epico e umile, rispose a tu per tu. A chi gli domandava delle sue radici letterarie, ribatteva: «Noi americani siamo europei in esilio. Il cuore della poesia e della cultura è lEuropa». A chi chiedeva ragione del perché il massimo poeta dellantichità, Omero, fosse cieco, chiariva: «Quel che più conta nella poesia è lascolto». A chi voleva sapere a quale genere letterario appartenesse la realtà, ribatteva: «Il sogno». A chi implorava un senso dalla Storia, disilludeva: «Non so se ci sia un progresso storico. Forse no. Ma vorrei che ci fosse un progresso etico».
Borges in quel dicembre dell85 tenne decine di incontri; visitò al buio una mostra a Brera dedicata a Füssli dove si esponeva, cosa rara, il suo capolavoro Lincubo; frequentò i ristoranti della Galleria, dove mangiava rigorosamente italiano; e ascoltò - annoiandosi - lAida di Verdi che apriva la stagione della Scala.
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