Non sono abituato, come Umberto Bossi, a trafficare con ampolle e acque sorgive. Anzi, per dirla chiara, ho sempre pensato che il rito settembrino in onore del dio Po, con prelievo al Monviso e versamento nella laguna di Venezia, sia una solenne bischerata. Ma devo confessare che la scorsa settimana mi sono sentito idealmente molto vicino al Senatùr. Trovandomi per lavoro dalle parti del Passo Resia, non ho infatti resistito alla tentazione di recarmi in pellegrinaggio alle sorgenti dell’Adige, che 250 chilometri più a valle abbraccia con una esse la città in cui sono nato.
Meglio sarebbe stato per me se non lo avessi fatto. L’unica indicazione in italiano sulla strada da prendere, un minuscolo segnale turistico di color marron, è stato affisso dagli altoatesini sotto una sfilza di cartelli bianchi che indicano i vari alberghi della zona. Praticamente invisibile. Raggiunto il primo gruppo di case, già non capisci se devi prendere a sinistra o a destra. Poco dopo cominci a incontrare delle esoteriche frecce direzionali di legno: «2A Etschquelle Etschquellenweg». Su alcune di esse una mano pietosa ha inciso con la biro «Adige», ma chi non conosce il tedesco deve perlomeno non essere miope, perché il sole ha ormai stinto l’improvvisata traduzione.
Arrivato alla sorgente – un rigagnolo che s’incanala in un coppo di granito – ho potuto così apprendere, finalmente nella lingua dello Stato, che «l’Adige è il più importante fiume del Sudtirolo» e, incidentalmente, «con la sua lunghezza di ben 415 chilometri il secondo fiume d’Italia». Nella descrizione, risalente al luglio 2005, lo stravagante geografo Kurt Ziemhöld (del quale non ho trovato traccia nell’intero scibile umano, e neppure su Google Österreich o su Google Deutschland), informa altresì che «nonostante tutte le opere di protezione, si susseguono quasi ogni anno delle alluvioni» – in territorio italiano, si capisce, in Sudtirolo non sia mai! – e «anche la galleria lunga 10 km, che devia una parte dell’acqua dell’Adige alta (sic) da Mori nel Lago di Garda (Torbole) non è riuscita ad evitare le alluvioni». Quanto alla navigazione, «conserva importanza solo in vicinanza della foca», e per fortuna che al tipografo non è scappata un’altra vocale.
Ci vuole rispetto per i fiumi, e ancor più per le terre che ne sono bagnate e per le popolazioni che su queste terre vivono. «Fiume sacro alla Patria», si legge sui ponti che scavalcano il Piave. Constato che in Alto Adige, a dispetto della delicatezza d’animo che trova spettacolare compendio nei balconi traboccanti di gerani e nelle tendine fatte a uncinetto, questo rispetto è solo di facciata, ipocrita, più falso d’un soldo bucato.
Capisco che da quelle parti siano ostili a romani e affini dai tempi di Druso e che da allora abbiano sempre considerato la stretta di Salorno un confine naturale non solo geografico, ma anche etnico, storico, culturale. Capisco pure che non abbiano mai digerito d’essere stati obbligati a optare nel 1939 fra due dittature: chi restava nell’Italia fascista perdeva tutto, persino il diritto al nome sulla tomba, ed era assoggettato a una spietata assimilazione; chi passava col Terzo Reich doveva abbandonare la propria terra per conservare almeno la madrelingua tedesca, e quindi l’appartenenza alla Heimat, la patria del cuore. Capisco infine che, specialmente tra gli abitanti della Val Venosta, sia ancora sanguinante la ferita inferta ai paesi di Curon, Resia e San Valentino alla Muta, sommersi dalle acque nel 1950 per far posto a una diga elettrica: 677 ettari di altopiano inondati, 160 case distrutte, un migliaio di persone evacuate con la forza. Quel campanile del XIV secolo che in parte affiora dal lago Resia resterà un imperituro monumento all’insipienza degli italiani.
Ma, santiddio, di mezzo ci sono stati anche il Trattato di pace di Saint Germain, lo statuto speciale, l’autonomia finanziaria concessa al Trentino Alto Adige, il «martellatore della Val Passiria» e sua figlia Eva Klotz che a parole non gli è da meno, 32 anni di terrorismo con 361 attentati, 21 morti e 57 feriti, una risoluzione dell’Onu, il «pacchetto» firmato a Copenhagen da Aldo Moro e Kurt Waldheim, Silvius Magnago che arringava le plebi per tre ore stando su una gamba sola, il bilinguismo e, insomma, si poteva sperare che la questione fosse stata in qualche modo chiusa per sempre.
Se così non è, e non lo è, tanto vale decidersi: o la consideriamo Italia o lo consideriamo Tirolo. Se è Italia, parlino e scrivano, non dico pensino, in italiano.
Stefano Lorenzetto
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