Quel tocco in più nei cocktail Il gran ritorno del Vermut

È l'aperitivo che ha reso grandi tre classici: il Negroni, il Manhattan e il Martini Dry. Ora le aziende stanno ampliando le etichette

Tutti pazzi per il vermouth, anzi chiamiamolo vermut, dato che l'invenzione di questo prodotto è torinese, datata 1786 e dovuta a Antonio Benedetto Carpano. Dopo decenni passati praticamente solo nelle vetrinette della zia, è tornato a essere un must per l'aperitivo con i prodotti di nicchia e le formulazioni artigianali a riempire le mensole dei bar più prestigiosi. Se non ci sono dubbi che il buon Carpano si sia ispirato ai numerosi vini all'assenzio, patrimonio straniero, a lui si deve il vero colpo di genio: da un lato l'eliminazione dell'assenzio e dall'altro l'aggiunta dello zucchero, che lo rese ben più piacevole, e dell'alcool che ne fece un prodotto trasportabile e adatto dunque all'esportazione. Il ritorno in grande stile ha avuto due effetti. Il primo: un ulteriore impulso ai colossi che stanno rivedendo/ampliando le gamme: Fratelli Branca, a fianco dell'Antica Formula, vanta tre Carpano (Dry, Classico e Bianco); Campari ha appena lanciato le etichette Bianco 1757 e Dry 1757 del marchio Cinzano, affiancandole al Rosso 1757; Martini & Rossi - che ha reso celebre il vermouth nel mondo, «codificandolo» e industrializzandolo nel 1863 - da pochi mesi ha messo sul mercato Riserva Speciale, nelle due varianti Rubino e Ambrato che utilizzano solo vini italiani selezionati. Il secondo effetto del fenomeno è che si stanno facendo rivivere antichi brand o creandone inediti: vedi le cantine (piemontesi, in primis) come Cocchi, Contratto, Dogliotti, Toso che firmano i «loro» vermut.

I prezzi sono superiori a quelli dei prodotti «commerciali»: una ventina di euro a bottiglia contro una decina, per semplificare. Tecnicamente, il vermut è un vino giovane, addizionato di alcol, zucchero e un infuso di erbe e spezie (mix segreto che differisce da un produttore all'altro) che gli regala le caratteristiche note aromatiche. Le tipologie sono dry, bianco, rosso e la meno diffusa rosè (peraltro deliziosa), differenziati non solo dal colore ma - per legge - da gradazioni alcoliche e tenori zuccherini.

All'estero si beve anche liscio, da noi, è il tocco in più per i cocktail. Spiega Tommaso Cecca, bartender del Café Trussardi di Milano che ha sempre pronte una decina di referenze: «Il vermut ha reso grandi tre classici eterni: il Negroni, il Manhattan e il Martini Dry. E ispira idee come il nostro Beer Americano dove la versione dry si abbina in modo perfetto a Campari, birra bianca e una spruzzata di essenza di arancio: tra l'altro si sposa all'hamburger di manzo, maionese e chips di patate, piatto storico della carta». Se non si è esperti come Cecca, si può non sfigurare aprendo il piccolo bar di casa. «Mai servirlo ghiacciato ma fresco. Poi, basta giocare sull'abbinamento facile: il bianco con il gin o il rosso con il whisky, sempre in parti uguali». L'unico tasto dolente è che la richiesta mai così elevata sta portando a una produzione senza controllo (nella Repubblica Ceca si realizza con una ricetta simile a quella piemontese), cosa che ha smosso le acque in Italia. Già lo scorso anno, una quindicina di produttori (tra cui i più grandi) si sono incontrati per presentare una bozza di disciplinare alla Federvini, da inviare prima alla Regione Piemonte, e poi all'Unione Europea che ha stabilito la data limite del 2017 per avere la denominazione IGP. La speranza, conoscendo l'italico costume, è non si litighi troppo e si perda il momento favorevole. Una volta di più c'è da chiedersi i motivi del boom. «Semplice, il vermut è un cocktail già pronto. Ma ragionato 150 anni fa, in modo geniale» risponde Cecca.

Vero, verissimo.

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