Per le toghe meglio il tenero Mastella dell’aspro D’Alema

Francesco Damato

Tra i personaggi maggiori e minori del mondo politico sfilati lunedì al Quirinale davanti a Giorgio Napolitano e Carlo Azeglio Ciampi per celebrarne, rispettivamente, l’arrivo e la partenza ho visto particolarmente scuro, e non solo di abbronzatura nautica, Massimo D’Alema. Sul cui viso si leggeva ancora il fastidio che non aveva saputo trattenere nell’intervista concessa a Repubblica sulla sua mancata elezione a presidente della Repubblica, sul rifiuto da lui opposto alla candidatura di Giuliano Amato, dirottato al Viminale, sulla esclusione pseudospontanea di Piero Fassino dal governo e sulle tensioni con il pur principale alleato dei Ds, che è Francesco Rutelli.
Al povero intervistatore che aveva cercato di girargli sospetti, dubbi e rilievi espressi da politici e osservatori il presidente diessino aveva risposto opponendo parole di questo genere, che vi riporto nell’ordine in cui le ho lette: «fesseria assoluta... volgare menzogna... un classico dello stupidario nazionale... scemenze... vergogna... letame». Doveva essersi reso conto pure lui, alla fine della conversazione con il malcapitato intervistatore, di avere esagerato se aveva ammesso: «Certo, anch’io dovrò correggere qualche mia asprezza».
Mi è un po' difficile immaginare che si riesca ormai a «correggere» il proprio carattere a 57 anni, quanti ne ha compiuti D’Alema il 20 aprile scorso. In ogni caso il Quirinale non mi sembra il luogo adatto per provare a cambiare carattere. A parte il metodo sbagliato che si è preferito adottare da parte della maggioranza per mandarvelo, è un bene che vi sia arrivato il più attempato e avveduto Napolitano, che non dovrà certo sforzarsi per mantenere la promessa fatta alle Camere di attenersi alla «necessaria sobrietà e rigoroso rispetto dei limiti che segnano il ruolo e i poteri del presidente della Repubblica nella Costituzione vigente». Ecco, la «sobrietà» è esattamente quella che manca abitualmente a D’Alema nei rapporti politici, per cui l’uomo finisce spesso per apparire più antipatico e meno astuto di quanto in realtà non sia.
Chi nelle scorse settimane ha tenacemente perseguito, a sinistra ma - ahimè - anche a destra, l’elezione del presidente dei Ds al Quirinale ha rischiato di grosso. Confesso che ad un certo punto, quando sembrava che la tela della candidatura di D’Alema stesse per essere completata, avevo cercato di vedere anch’io quale beneficio se ne sarebbe comunque potuto ricavare, visto che non tutto il male vien per nuocere. Mi ero un po’ consolato immaginando scontri nel Consiglio superiore della magistratura tra un presidente come lui e la corporazione giudiziaria. Ma il programma quirinalizio di D’Alema anticipato dal segretario dei Ds Piero Fassino al Foglio mi disilluse rapidamente. L’impegno di evitare «cortocircuiti tra politica e giustizia» era contraddetto dalla promessa continuità con l'azione di Ciampi. Durante il cui settennato, per quanto lodevole sotto altri aspetti, si è perso letteralmente il conto degli scioperi dei magistrati contro i governi di Silvio Berlusconi e il Parlamento, colpevoli di non farsi dettare le leggi dalle toghe, secondo vecchie abitudini che temo destinate a tornare con il nuovo guardasigilli.

Clemente Mastella ha infatti esordito annunciando ai magistrati un mezzo pellegrinaggio alla sede del loro sindacato e prospettando «un decreto legge - ha detto a Repubblica - che sospenda alcune parti della riforma dell’ordinamento giudiziario su cui essi sono fortemente recalcitranti».

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