Toglietegli tutto, ma non la poltrona

Come un naufrago s’aggrappa alla sua zattera, così Fini s’aggrappa alla sua poltrona. Ben sapendo che è l’ultima cosa che gli resta per evitare (...)
(...) l’immersione definitiva nel mare di guai che lo circonda. Sta andando a fondo e lo sa: sconfitto ieri sulla mozione Bondi, così come era stato sconfitto il mese scorso sulla sfiducia a Berlusconi, debole in Parlamento e inesistente fuori, inseguito fino dentro la cucina dalle ombre di Montecarlo, sbugiardato pubblicamente, affossato dai sondaggi e incapace di mantenere fede alla parola data, il leader che doveva essere il collante del nuovo centrodestra, riesce al massimo ad essere il collante del suo fondoschiena. S’appiccica alla cadrega, manco fosse il Vinavil, nella speranza di non perdere pure quella, dal momento che tutto il resto ormai l’ha perso. A cominciare dalla faccia.
E fa un certo effetto pensare che l’uomo che doveva fare a pezzi Berlusconi, ormai non ha null’altro che quello che gli ha dato Berlusconi: se in politica l’ingratitudine si potesse misurare, avrebbe la dimensione dello scranno più alto di Montecitorio. Le folle che applaudivano il presidente della Camera in Umbria sono svanite, il movimento sbanda, i sondaggi ormai rilevano percentuali da partito dei pensionati, gli alleati, a cominciare da Casini, si chiedono se non hanno sbagliato matrimonio, come quei mariti che scelgono le mogli per corrispondenza in Moldavia e poi si accorgono che non sono proprio un esempio di virtù. L’unica cosa vera che resta a Fini è quella che gli ha dato Berlusconi: la poltrona della sua vanità. Tra un po’ se la porterà anche a letto per paura che qualcuno gliela sfili via mentre dorme, lasciandolo col culo per terra, ancor più di quello che è già.
«Mio cognato mi ha detto che non c’entra niente con quelle società off shore», ha detto alla Stampa Fini. Ma certo. Poi magari gli ha anche raccontato che Santa Lucia è il nome del prossimo ospite del Festival di Sanremo, l’appartamento di Montecarlo è stato comprato da Mago Zurlì e che sopra al Principato ci sono i Tulliani che volano. Per carità, a tutto si può credere, persino che Bocchino possa guidare un partito. Ma nelle file dei finiani il nervosismo dilaga: si rendono tutti conto che la difesa non sta in piedi. E che si sono affidati a uno che perde regolarmente tutte le sue battaglie, portando i seguaci a schiantarsi, senza salvare niente e nessuno. A parte la sua poltrona, va da sé.
Ma che ci fa adesso con la poltrona, l’uomo che doveva dare un volto nuovo al centrodestra? Ha provato in tutti i modi a costruire qualcosa da quella posizione privilegiata, e l’ha fatto pure a costo di mettere a rischio l’istituzione che rappresenta, l’ha fatto usando i soldi della Camera per girare l’Italia a fare propaganda di partito, l’ha fatto svilendo l’imparzialità della sua funzione in una serie infinita di giochi faziosi. Ha usato e abusato di tutto, e che cosa ha ottenuto in cambio? Una sconfitta via l’altra. Povero Fini: voleva essere più grande di Aznar e Sarkozy messi insieme. Non riesce nemmeno ad essere il fratello scarso di Rutelli.
E colpisce adesso vedere come s’abbarbica alla seggiolina, ben sapendo che non gli resta altro. Il suo partito chiede le dimissioni di Berlusconi, Bondi, Calderoli, Minzolini, tra un po’ chiedono le dimissioni pure del ct della Nazionale e del direttore dell’Osservatore Romano. L’unico che pensa di non doversi dimettere è lui. E il suo fedele Briguglio, che per non essere da meno del capo, s’è incollato alla poltrona del Copasir. Che ci volete fare? Ormai il partito finiano non cerca più adesioni: cerca adesivi. Futuro, Libertà e Coccoina. Nei momenti difficili, si sa, ci si attacca a quello che si ha. E a Gianfranco non è rimasto più molto, a parte un cognato piuttosto imbarazzante.
D’altra parte, mettetevi nei suoi panni: se ora perde l’incarico di Montecitorio, quale futuro lo aspetta? Che incarico gli possono affidare? Assessore al traffico di Calamandrana Alta? Portaborse della Palombelli? Autore di testi televisivi per la suocera? «Se la casa di Montecarlo è di Tulliani, lascio» aveva dichiarato a settembre. Ecco, appunto: la casa è di Tulliani, ma lui si guarda bene dal lasciare. Tutt’altro. Si crogiola nel suo egotismo e continua a far finta di essere importante. Di faticare non ha mai avuto voglia, di presenziare ai lavori parlamentari nemmeno.

In compenso gli piacciono le cerimonie in cui usa la poltroncina per specchiare la sua vanità: in poche ore infatti ha celebrato Tullia Zevi, Enrico Micheli e Mario Scaccia. Tre defunti, tre orazioni funebri: più che la Camera, una camera ardente. Perfettamente in sintonia, del resto, con il suo destino di uomo politicamente morto.

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