Torna la grande «Bohème» di Zeffirelli

Fra gli interpreti il soprano coreano Hei-Kyung Hong, Fabio Capitanucci e Roberto Aronica

Elsa Airoldi

Torna "la" Bohème della Scala. Quella che Franco Zeffirelli, responsabile di regia e scene, aveva realizzato per il teatro 42 anni fa con debutto il 31 marzo 1963. La versione che alla sola Scala ha registrato da allora 170 recite. La prima delle quali con Karajan e la coppia Freni-Raimondi. Poi sul podio di Karajan sarebbero passati Prêtre e Kleiber. E sulle tavole del Piermarini Di Stefano e Pavarotti. Mentre la Bohème di Zeffirelli avrebbe girato il mondo.
Ovunque un trionfo. La tenuta che sfida i decenni pare stupire lo stesso artefice. «Ho fermato l'orologio» si dice, «come ho fatto?». «Ho trovato la chiave». La chiave persa da Mimì, ma soprattutto quella che recupera le scene «de la vie de bohème» pubblicate a puntate da Murger su Le Corsaire tra il 1845 e il 1848 con competenza, rispetto, sapore di Quartiere latino. E con una vena poetica che consegna ai nostri sogni i quattro quadri ricostruiti sulla scorta delle illustrazioni originali (Daumier e compagni).
La soffitta del primo e del quarto, dove ogni particolare è ricostruito con scrupolo maniacale. Inclusa la stufa, quella tonda di tutte le soffitte, tutti i tempi e tutte le bohème. E dell'immensa tela di Balestrieri (Parigi, 1900) che domina il museo Revoltella di Trieste. La geniale sovrapposizione di piani del secondo: in basso le bancarelle di Natale che poi scompaio per far posto al caffè Momus e alla concitata entrée di Musetta con tanto di carrozza e cavallo bianco in carne e ossa. Più su la strada dove sfilano soldati, bandiere, Tamburo Maggiore. Più su ancora le finestre illuminate dei palazzi di Parigi. Il lirismo del terzo con il notturno alla barriera d'Enfer, la distesa innevata, il cabaret di luci , il bozzettismo dei ragazzini inseguiti dal prete, le lattaie, gli spazzini... Ancora la soffitta. Ma a ciascuno il suo.
Già, c'è anche Puccini. Con i colori di una partitura in perenne metamorfosi, pronta a slittare senza strappi da un'impianto armonico all'altro e di tema in tema. Un Puccini di transizione, che sta in pieno verismo ma cammina con le sue gambe, preferendo all'eccesso la cifra sussurrata, la discrezione. Un Puccini inquieto che risolve su continue citazioni: il nostro melodramma, il romanticismo tedesco, Bizet, il Falstaff, la romanza da salotto. Se stesso. Un Puccini pronto a trasformare il canto in una specie di Sprechgesang tenuto sui quei toni medi che sono poi il segreto del successo planetario di un'opera solo apparentemente semplice. Ben più facile sarà per tutti il modernismo dichiarato della Fanciulla o di Turandot. Un Puccini, infine, autobiografico, pronto a riconoscere la sua bohème di quando studente a Milano si trovava a dividere la camera d'affitto.
Aggrappata al suo vessillo la Scala côté opera (il balletto per ora resta agli Arcimboldi) torna definitivamente a casa. A riportarcela con la 13 repliche di Bohème (da domani al 19 luglio) è il direttore spagnolo Rafael Frühbeck De Burgos. Con lui orchestra e coro del teatro e un cast che dalla Bohème del 2003 (sul podio Bruno Bartoletti e sui leggii la nuova versione critica di Francesco Degrada, un musicologo e amico che non riusciamo a pensare volato via per sempre) recupera il soprano coreano formato in Usa Hei-Kyung Hong, ora Mimì e allora Musetta. Mentre Fabio Capitanucci, uscito dal concorso Belli di Spoleto, perfezionato all'Accademia scaligera, rodato da Traviata, Rigoletto e Ballo di Muti e già Marcello alla Scala, ricopre lo stesso ruolo. Roberto Aronica, già al Piermarini con Butterfly, è Rodolfo. Colline è Carlo Cigni e Schaunard Filippo Morace. Musetta Daniela Bruera, alla Scala con Muti in Armide. In occasione del ritorno di Bohème mano ai fazzoletti.

Qualche lacrima scappa sempre. Per la metafora di anni squattrinati e felici, per l'illusione. Per l'affettuosità che avvolge ogni cosa. Inclusa la vecchia zimarra che «sala al monte» per un'arringa, un rimedio, un dottore...

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