Tornano le «Note azzurre», integrali e più pungenti

«Era un’inesauribile zecca di epigrammi, pittoriche frasi, non sospettati modi di dire (...) ed era una miniera senza fine di aneddoti sconosciutissimi quanto interessantissimi per la storia dell’Arte e la cronaca milanese». È Carlo Dossi che schizza un ritratto per frammenti fulminanti dello scrittore-critico Giuseppe Rovani.
Ciò che Dossi ammirava in Rovani, il lettore odierno lo ritrova intatto nelle 5794 Note azzurre che l’aristocratico erede di quello spirito milanese, rimpianto e perduto, scrisse fra il 1866 e il 1907. Zibaldone di pensieri e allo stesso tempo diario della vulcanica curiosità di un, si direbbe oggi, intellettuale che seziona le letterature antiche e moderne alla ricerca di un vocabolo bizzarro, a caccia di etimologie sorprendenti e collegamenti insospettati magari con l’amata lingua di Carlo Porta, di cui è fra i primi a intuire la fantasia e la raffinata perizia stilistica. Accanto alle postille a margine degli adorati classici (Stazio, Giovenale, Plinio), si trovano spesso gli umoristi inglesi (Swift, Fielding, Sterne) e Jean Paul Richter, «letti e citati direttamente sugli originali», come sottolinea Dante Isella - cui si deve il grande lavoro di ricostruzione critico-filologica dell’opera dossiana - «con l’occhio ad alcuni motivi costanti (...) e col pensiero a certa prosa ideale, tra il tenero e l’humor, tra l’apparente sprezzatura e la preziosità raffinata».
In occasione del centenario della morte dello scrittore, un articolato convegno promosso dall’Università degli Studi Milano, dalla benemerita Casa del Manzoni e dall’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere ha esplorato lo scrittore «per progetto», l’archeologo «per passione» e il diplomatico «per dovere», tre aspetti che si intrecciano illuminando quel mondo politico romano che Dossi conobbe negli anni in cui ricopriva l’incarico di Capo di Gabinetto di Francesco Crispi. Un «pedale» accompagna le riflessioni politiche: l’odio per la burocrazia, per i vili maneggi e le invidie degli impiegati e la colossale vanità dei capintesta («Scopo della burocrazia è di condurre gli affari dello Stato nella peggior possibile maniera e nel più lungo tempo possibile»). Per l’occasione celebrativa Adelphi ha pubblicato l’edizione integrale delle Note azzurre, a cura di Dante Isella (pagg. 1254, euro 26, oltre una elegante tiratura speciale esemplata sull’inedita edizione Ricciardi del 1955), inserendo quelle «note» scabrose che furono origine di un’altrettanto avvincente storia editoriale.
Erano scomparsi gli estri amatori del Giove sabaudo, Vittorio Emanuele II e i peccaminosi desiderata di Niccolò Tommaseo al postribolo, ma non l’ingegno anticonformista e originale che scintillava fin dall’edizione curata dalla vedova nel 1912 con fulmini anticlericali indimenticabili: «Nella letteratura comica, vanno specialmente messe le opere teologiche. C’è, per es., un opuscolo De trinitate dove si pone sul serio la questione che cosa fanno le tre persone della santissima Trinità in Cielo, e si conclude, dopo molti sottili ragionamenti discorrono tra loro, lodandosi vicendevolmente e continuamente».

Un saggio di chiusura, ricco, documentato e insolito a firma del pronipote del Dossi, Niccolò Reverdini, ricorda la travagliata storia editoriale dei quaderni affidati dallo scrittore alla moglie Carlotta Borsani. Rimane intatta la testimonianza della lunga fedeltà del Dossi a un mondo che le Note azzurre tengono sempre vivo e che lo circondano come «la folla de’ miei cari morti che sempre cresce e mi chiama a sé».

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