«In fondo il calcio si gioca per il pubblico», dichiarazione che in questi giorni ha fatto il giro dItalia allinterno della questione porte aperte e porte chiuse. Allenatori, dirigenti e presidenti lhanno ripetuta fino allo svenimento e ancora ieri Gianfranco Zola, consulente tecnico dellUnder 21 azzurra, lha riproposta con una variante: «Il calcio è nato per essere giocato davanti al pubblico», una sfumatura pregevole, ma la sua precisazione domenica si è scontrata con questa variabile impazzita che sta ormai diventando il pubblico dei nostri stadi.
A Roma, Genova, Palermo, Torino e Cagliari, e cioè nei cinque campi nei quali si poteva accedere pagando un biglietto in quanto ritenuti in regola con le norme Pisanu, si è registrato un totale di 9.874 spettatori, abbonati esclusi. Il 27 e 28 marzo, giornata precedente nella quale Roma, Sampdoria, Palermo, Torino e Cagliari erano impegnate sempre in un turno casalingo, il totale degli spettatori paganti è stato di 26.171, un decremento di oltre 16mila spettatori su soli cinque campi dopo lomicidio di Catania. Le casse societarie peraltro hanno ricevuto una specie di tracollo, 345.059 euro in meno. È altrettanto vero che solo lo stadio di Marassi che il 28 gennaio aveva in cartellone Samp-Inter rispetto a Samp-Ascoli di domenica, ha avuto un calo di quasi 11mila paganti con una differenza di incasso di 251.000 euro. Giocare contro la prima in classifica rispetto allultima è sicuramente un vantaggio sotto laspetto dellaffluenza e quindi economico, ma i 553 biglietti staccati domenica a Marassi sembrano comunque uno schiaffo alla serie A che ha fatto i numeri per riaprire le porte degli stadi agli italiani. E cè poi il dato sufficientemente inquietante degli abbonati: a Milano presenti solo in 21.649 contro i 37mila possessori di tessera.
Forse fra le decine di indagini demoscopiche che hanno preso il sopravvento in questi giorni, è mancata quella più banale: quanta voglia avevano gli italiani di tornare allo stadio. Il vero problema non era mettersi in coda, farsi perquisire, sedersi in impianti scomodi, trovare il bagno più vicino a un paio di rampe dal proprio seggiolino, rifare la coda per tornare a casa, ma «lultima diversificazione del rischio», come spiega la psicologa Vera Slepoy: «Dopo i fatti di Catania, limmutabile atteggiamento del tifoso, sta mutando».
Secondo la Slepoy, che ha avuto unesperienza a Palermo nel 2000 restando circa sette mesi in ritiro con la squadra rosanero, è successo un fatto nuovo e anche il tifoso che raggiunge lo stadio consapevole dei rischi che potrebbe incontrare, è stato colto impreparato e ha vinto la paura di non riuscire a neutralizzare la violenza: «In questo momento le cose nel mondo del calcio non stanno andando molto bene e il tifoso veicola la sua passione sulla televisione e sui giornali. Preferisce non giocare più in prima persona ma affacciarsi a una ipotetica finestra che lo tiene a distanza dal pericolo. Io credo che labbonato che non si è presentato allo stadio pur avendo in tasca lingresso, non abbia neppure pensato alla perdita economica». Domenica nella fascia oraria 15-18, Sky ha registrato 14.78 di share, il doppio rispetto a tutta larco della programmazione giornaliera.
Ma questo decremento pesante di spettatori suggerisce alla Slepoy un nuovo scenario: «Qui siamo davanti a un cambiamento radicale. Lo spettatore ritenuto più malleabile, quello meno pericoloso e più abbordabile, sta cambiando pelle.
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