Una bottiglia di vodka. Qualche lattina di birra
scolata. Lì, tra i mazzi di fiori, le candele e i bigliettini. Davanti
alle foto e ai ritratti di lei,l’amata Amy.È il tributo alla morte
della cantante maledetta. Il feticismo della perdita. Un altare
improvvisato davanti alla casa di Camden Town, nord di Londra, dove
abitava. Pietà e scemenza. Affetto e idiozia. Addio struggente di
dolore. Ma anche commiato insolente. Ottuso. Una bottiglia di vodka
in mezzo ai bigliettini accorati è la mitizzazione dello sballo. Un gesto privo del pudore della morte.
Amy Winehouse è morta nel modo che tutti o quasi ci si aspettava. L’ha
detto persino la madre, era solo questione di tempo.Se n’è andata con
la sua voce nera, le gambe magre, gli occhi bistrati e l’acconciatura
smodata come le sue notti.
Risucchiata dall’abisso che l’attraeva, succube del fascino dell’autodistruzione. Una tragedia del male.
L’inevitabilità di una deriva. Una solitudine disarmata. Una
fragilità sconfinata. Un talento più grande di sé. Che si fatica a
gestire, soprattutto quando non si riconosce che è puro dono, tocco
della natura, se non della grazia. Tutte faccende toste. Faccende
drammatiche. Che nulla hanno a che vedere con la retorica del «genio e
sregolatezza » di cui traboccano i commenti di questi giorni. Il club
dei 27, Jim Morrison, Jimi Hendrix, Janis Joplin eccetera. Come se
la vita e la morte fossero una cabala, un numero da estrarre sul
calendario del destino. E diventassero sociologia. Tendenza, come
si dice. Quante ce ne sono di rockstar ventisettenni. Perché non
facciamo la classifica? Quello aveva una voce più bella, però era meno
trasgressivo. Quell’altro si faceva di più, ma svisava meglio di
tutti. E lei, quante lavande gastriche...
È il post mortem
del rock. Una liturgia nichilista che si ripete, uguale a se stessa,
dopo la fine di ogni star troppo fragile. Il giallo sulle circostanze
del decesso. Le liti con il compagno, in questo caso il regista Reg Traviss che avrebbe scoperto le telefonate
con l’ex marito che l’aveva iniziata al crack. L’ultima visita del
medico. Le accuse ai manager indifferenti alla sua debolezza. Come
aveva trascorso l’ultima notte. Intanto,
sempre, i cd schizzano in testa alle classifiche. Le canzoni sono
le più scaricate da I-Tunes. E la casa discografica annuncia che,
probabilmente, uscirà un disco di brani che stava registrando in studio.
Sarà il terzo di Amy, leggenda del soul con un solo cd di successo
alle spalle, quel Back to Black nel quale cantava «tornerò nell’oscurità». Appunto.
È così: il cerimoniale dell’indotto macabro del rock è un déjà vu che non risparmia nemmeno l’elaborazione del lutto dei fan. Diari, fotografie, oggetti cari, fiori, indumenti intimi: tutto viene depositato presso la casa, sul luogo del decesso, sulla tomba dell’idolo che ci ha lasciati. Da Elvis a John Lennon, da James Dean a Lady Diana. Un pezzo di noi se ne va con loro. Idealmente li accompagna nell’altrove. Ma ci vuole una discreta dose di ottusità per buttare una bottiglia di vodka, dei sigari e delle lattine di birra tra gli ex voto di Amy Winehouse. È un gadget dell’idiozia, uno status symbol della scemenza, uno sberleffo insulso, un gioco oltranzista dal sapore autodistruttivo. La star che in Rehab cantava « hanno provato a farmi disintossicare ma io ho detto no no no» si è accasciata per sempre nel suo rifiuto. Ma una bottiglia di vodka tra i fiori, cos’è? Un invito a proseguire lo sballo nell’aldilà, quale che sia? O la rivendicazione oltranzista di un club di militanti della deriva? Vien da pensare sia il gesto di un fan che non voleva bene al suo idolo. O un gesto di scherno, un vezzo, una roulette russa giocata anche dopo che la morte è arrivata. In tutti i casi, un atto scriteriato.
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