Con l'approvazione della risoluzione 1701, l'Onu ha fatto la sua parte: ha trovato cioè un testo che ha evitato veti, altrimenti non sarebbe uscito dal Consiglio di Sicurezza, e che offre a ciascuno di coloro che dovranno applicarlo margini interpretativi sufficientemente ampi per cercare di volgerlo il più possibile a proprio favore. Questo è il destino delle risoluzioni dell'Onu quando riguardano situazioni molto aggrovigliate. In questo caso la diplomazia punta ad evitare che ci sia un vincitore netto e uno sconfitto che perde la faccia. La parziale soddisfazione di tutti equivale a una parziale insoddisfazione, e poi ogni governo è libero di rivendere al meglio la 1701 presso la propria opinione pubblica.
Diciamo subito che una risoluzione ci voleva, altrimenti l'Onu sarebbe scomparsa: questa è stata la ragione che soprattutto gli Stati Uniti hanno fatto valere presso Israele per indurlo prima ad accettarla in via di principio e poi in concreto. Ma c'è voluto oltre un mese per arrivarci e supponiamo che la lentezza iniziale, le controversie tra Usa e Francia, che più che mai hanno recitato un gioco delle parti, la minaccia di veto russo, e la stessa riunione della Lega Araba, hanno avuto l'effetto - da alcuni ricercato - di dare tempo a Israele per condurre la sua operazione militare, giungendo sulle rive del fiume Litani, cioè a 30 chilometri di profondità nel Libano meridionale, così da creare una fascia abbastanza profonda da cui allontanare definitivamente le milizie hezbollah.
La risoluzione 1701 prevede che l'esercito libanese e la forza di interposizione dell'Onu, Unfil, che sarà portata a 15mila uomini e sarà sotto comando francese, prendano gradualmente il controllo di questa fascia di territorio profonda 30 chilometri, consentendo parallelamente alle forze israeliane di ritirarsi. È evidente come questa disposizione sia elastica: da un lato bisogna mettere in piedi la forza multinazionale (ci vorranno almeno dieci giorni), e dall'altro bisogna misurare l'efficienza delle forze regolari libanesi nel disarmare Hezbollah. Per questo il documento dell'Onu prevede sì la fine delle «operazioni offensive» israeliane - scatterà da domani, lunedì - ma non precisa quali siano da considerarsi «difensive», come ad esempio le ritorsioni contro il lancio di razzi e le incursioni contro le rampe mobili da cui vengono lanciati. Israele ha avuto quindi soddisfazione: ha accettato il cessate-il-fuoco, nei termini sopra indicati, ma non l'immediato ritiro. Quanto al governo libanese, già dimostratosi incapace di disarmare gli Hezbollah in base alla precedente risoluzione 1559, il rafforzamento dell'Unfil (i cui militari avranno il diritto di rispondere al fuoco) lo tiene sotto tutela e con prognosi riservata sulla sua reale capacità di prendere in mano le redini del Paese. Per cui il premier Siniora dovrà dimostrare quanto vale nei confronti delle fazioni che formano il suo governo. In ogni caso è stata data a lui e al suo Paese una chance: dimostrare di essere uno Stato sovrano con un governo autorevole. Se accadrà, si aprirà anche la strada a una completa politicizzazione di Hezbollah, ma al momento, considerata la forza da esso raggiunta e la preparazione della sua offensiva da Nord contro Israele, scattata poco dopo quella di Hamas da Sud, non ci sono concrete ragioni per intravedere una svolta a breve.
Israele, dal canto suo, ha trovato una resistenza, nella sua avanzata terrestre, superiore a quanto si aspettava, e questo non è colpa del premier, la cui mancanza di esperienza militare sembra più un argomento di politica interna che un fattore influente sulla gestione della crisi. Avere mantenuto una offensiva per oltre un mese non è stata cosa da poco, come la decisione di mettere a nudo di fronte al mondo le responsabilità di Hezbollah, bene armato e addestrato da Siria e Libano, come testimoniano le migliaia di razzi inviati su Israele e soprattutto la capacità di resistenza alle forze terrestri israeliane.
La vicenda, nel suo complesso, ha riportato ad un allineamento Usa-Francia-Gran Bretagna che non si vedeva da molto tempo. Questo è forse il dato politico e diplomatico più interessante. L'offensiva di Hezbollah e la forte reazione di Israele hanno funzionato da catalizzatore, e probabilmente hanno consigliato molta prudenza alla Siria, che è prudente per natura, e all'Iran. Il richiamo all'islamofascismo fatto dal presidente americano George Bush assume, alla luce di questo allineamento occidentale, un significato simbolico molto forte perché egli ha voluto richiamare la convergenza di due dottrine egualmente ostili ai valori dell'Occidente.
Non abbiamo elementi per collegare gli sventati attacchi agli aerei in partenza dal suolo britannico per gli Stati Uniti, che secondo le notizie giunte alla stampa avrebbero dovuto avere luogo il 16 agosto, alle offensive di Hamas e di Hezbollah contro Israele, preso come in una tenaglia, ma non possiamo evitare di registrare una specie di gara tra terrorismo di marca sciita e terrorismo di marca sunnita a chi colpisce più duramente Israele e l'asse Londra-Washington per acquisire merito di fronte all'opinione pubblica islamica. La corsa dell'Iran al possesso delle armi nucleari fa parte di questa gara.
Adesso la reazione militare israeliana in Libano ha chiarito che esiste un forte schieramento deciso a resistere alle due pretese degli estremisti: da un lato la volontà di cancellare Israele dalla carta politica, come ha detto il presidente iraniano Ahmadinejad; dall'altro il tentativo di colpire i maggiori alleati di Israele affinché, intimoriti in casa propria con gli attacchi terroristici, lo abbandonino. Contro questa strategia si è manifestata la convergenza anglo-franco-americana alla quale né la Russia né la Cina si sono opposte.
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