Roma - A dimostrar quanto sia cortese il Quirinale, Giorgio Napolitano si è intrattenuto con la delegazione dell’Udc per un’ora abbondante. Come richiesto al mattino nella riunione dell’Ufficio politico, alle 18 è salito al Colle l’intero gruppo dirigente: il leader indiscusso Pier Ferdinando Casini, il presidente del partito Rocco Buttiglione, il segretario Lorenzo Cesa e i due capigruppi, Francesco D’Onofrio e Luca Volontè. Dal resoconto dello stesso Casini in successivo briefing a Montecitorio, par di capire che Napolitano abbia detto poco o nulla, probabilmente la domanda più pregnante dev’esser stata «quanto zucchero?» al giro di caffè. Ma che poteva dire il Presidente, più di quanto aveva già detto nelle ore precedenti il voto al Senato? Però ha ascoltato con pazienza, facendo buon viso alla situazione surreale di un partito che rimprovera al governo «la non autosufficienza politica» sull’Afghanistan, dopo esser stato determinante nell’approvarne il decreto.
L’Udc, dunque, ha lamentato con Napolitano che la «sindrome di autosufficienza di Prodi è solo una finzione», ha rivendicato che «l’Italia ha bisogno di un nuovo governo che dia stabilità al Paese», e ha garantito di non essere interessata «a maggioranze variabili o a forme di cooptazione in questa maggioranza». Casini riferisce di aver spiegato al capo dello Stato «le ragioni di una scelta ideale che ci deriva da una tradizione politica di cui siamo fieri», con il voto al Senato «abbiamo difeso l’interesse dell’Italia e dei nostri militari. Abbiamo confermato ciò che è chiaro a tutti gli italiani in buona fede, che siamo una forza di ferma opposizione», pur se «il nostro essere opposizione è diverso dalla scelta che alcuni alleati hanno inteso fare cambiando la posizione che avevano sempre espresso sulle missioni militari di pace». Come stan messi con gli ex alleati - o separati in casa, se preferite - già alle prese con le candidature per le amministrative?, gli han domandato i giornalisti. Casini ha risposto con baldanza: «C’è la periferia che lavora ed è più avanti di noi».
Insomma, l’udienza al Quirinale serviva allo scopo illustrato da D’Onofrio al mattino, mentre lasciava il palazzotto della Direzione nazionale: «In primo luogo, far chiarezza e sgomberare il campo da ogni equivoco: non intendiamo entrare nella maggioranza né sorreggerla in alcun modo. E poi, ribadire che ormai esistono due opposizioni, con questo dato bisogna che tutti facciano i conti». «Che mossa, eh?», ha chiosato Volontè con una buona dose di autoironia. Una linea sulla quale però non mancano dissensi, se Emerenzio Barbieri, poco dopo in Transatlantico, lamentava: «Cosa ci vanno a fare da Napolitano? Per dire che? Se è per rimarcare che non siamo entrati nella maggioranza e non intendiamo fare la stampella di Prodi, vuol dire che abbiamo la coda di paglia. Se è per sottolineare che ci sono due opposizioni, ma Casini non lo va dicendo da mesi?». Lo riprendevano per questo sfogo alcuni colleghi di osservanza casiniana, un po’ seri e un po’ ridendo, e Barbieri li ha rintuzzati: «Questi qui hanno un’idea di partito che coincide col Pcus di Stalin. L’unica differenza è che non hanno una Siberia dove mandare i dissidenti».
Già, i dissidenti. A parte Carlo Giovanardi che si dice «in totale disaccordo» e rinfaccia a Casini che «la base del partito non è con lui», la situazione di oggettivo isolamento in cui versa ormai l’Udc genera quanto meno nervosismo anche nel gruppo dirigente. Un fedelissimo di Buttiglione è stato colto mentre confidava che «Rocco condivide la linea politica del partito, la trova giusta, ma ormai dubita seriamente che possa essere Casini il migliore a interpretarla». All’ora di pranzo poi, mentre i giornalisti attendevano le conclusioni dell’Ufficio politico, s’è visto il segretario Cesa schizzar via col sangue agli occhi, infuriato come una vipera, sbattendo la porta e senza salutar nessuno.
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