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«Ultimo» scova i furbetti della Basilicata

Trasferte romane. In orario di lavoro andavano dal barbiere o facevano shopping. E quando proprio si decidevano a metter piede in ufficio, approfittavano dei telefoni per chiamare i parenti. Mica per raccontarsi chissà cosa, anzi le telefonate, spesso, erano addirittura «mute»: effettuate cioè col solo fine di ricaricare i cellulari di figli, mogli, nipoti.
Cinque dipendenti dell’ufficio di rappresentanza della Regione Basilicata a Roma (ente utile?) sono ora accusati di truffa e peculato. Accusato di peculato anche un collaboratore esterno del governatore della Regione, Vito de Filippo.
Con un espediente non particolarmente originale ma sempre efficace - i badge fatti passare di mano in mano, e timbrati a turno da uno per tutti gli altri - i cinque «furbetti» avrebbero realizzato «un ingiusto profitto, rappresentato dal monte ore indebitamente retribuitogli dalla pubblica amministrazione». A sostenere l’accusa è il pubblico ministero più famoso della Lucania, l’anglo-napoletano Henry John Woodcock, autore delle memorabili inchieste sul «Savoiagate» e su «Vallettopoli». Nel caso dei funzionari lucani in trasferta nella capitale, Woodcock si è peraltro giovato dell’aiuto di un celeberrimo segugio, il colonnello dei carabinieri Sergio De Caprio, alias «capitano Ultimo»: l’uomo che arrestò Totò Riina. Il quale, dai pedinamenti di boss mafiosi, è passato senza fare una piega agli appostamenti per cogliere in fallo i dipendenti lavativi mentre comprano il pesce al mercato in orario di lavoro, o mentre escono dall’ufficio molte ore prima del dovuto per accomodarsi dal parrucchiere e rifarsi la messa in piega.
Come si diceva, oltre a barare con i loro badge (di qui l’accusa di truffa), i cinque, per i quali l’accusa intende chiedere il rinvio a giudizio, avrebbero fatto un uso disinvolto dei telefoni d’ufficio. Chiamate private da utenze pubbliche: un peccato magari veniale, se non fosse che, secondo le intercettazioni, gli abusi sono stati «sistematici, ripetuti e continuativi». Al punto che l’88 per cento delle bollette della sede romana pagate dalla Regione Basilicata - che naturalmente in questa vicenda è parte offesa - sarebbero relative a quelle chiamate personali.
Chiamate «mute», come s’è visto, ma anche di altro genere, ad esempio al macellaio per qualche ordinazione. In un caso particolare, poi, gli investigatori avrebbero documentato le telefonate al centralino della Rai per chiedere la partecipazione al famoso gioco dei «pacchi». E ancora, chiamate continue al proprio «veggente di fiducia», allo scopo di «esplorare il favore degli astri». Insomma, scrivono gli investigatori, tutto «come in una sorta di phone center gratuito», aperto anche ad amici e parenti.

E perfino all’addetto delle pulizie, la cui moglie avrebbe fatto «lunghe e costose» telefonate ai suoi in Sudamerica.

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