Umberto Ambrosoli: "Oggi mio padre Giorgio lotterebbe ancora da solo"

Il figlio dell'avvocato che 30 anni fa pagò con la vita l'incarico di liquidatore della banca di Michele Sindona: "Intorno a persone come lui si crea il vuoto"

Umberto Ambrosoli: "Oggi mio padre Giorgio lotterebbe ancora da solo"

Sono passati trent’anni e il ricordo di Giorgio Ambrosoli, l’«eroe borghese» ucciso per la sua fedeltà agli ideali di libertà e ai principi di giustizia, è vivo più che mai. Fu ucciso sotto casa, con alcuni colpi di pistola, poco prima di depositare le sue conclusioni sul dissesto della Banca privata italiana, l’istituto che Michele Sindona aveva portato al crac con manovre spericolate e fuorilegge. Era l’11 luglio del 1979. Per quell’omicidio, ampiamente annunciato e dolorosamente atteso, sette anni più tardi Michele Sindona e Roberto Venetucci furono condannati all’ergastolo. Ma non fu un’esecuzione e basta. Fu un delitto provocato e alimentato da un sistema corrotto e privo di valori, dove le istituzioni furono oggetto di aggressioni mai viste, fino all’incriminazione del governatore e all’arresto del direttore della Banca d’Italia. Un misto di collusioni fra politica e finanza, di degrado morale, di logge massoniche, di organizzazioni parallele. La tragica vicenda che ruota intorno alla figura di Giorgio Ambrosoli permise la scoperta della Loggia P2 e fu il grande anticipo di Tangentopoli: semplicemente, i tempi allora non erano ancora maturi, e la consapevolezza collettiva dovette maturare per altri 12 anni.
Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio e avvocato come il padre, ha raccontato tutta la storia in un libro dedicato ai suoi figli, bambini com’era bambino lui quando rimase orfano (Qualunque cosa succeda, Sironi editore); ha ricostruito quegli anni attraverso le agende di suo padre e una mole infinita di atti processuali e parlamentari. Ne esce la vicenda di un uomo giusto, vittima del suo senso di responsabilità e della sua incorruttibilità, sullo sfondo di anni di piombo durante i quali gli omicidi di avvocati, sindacalisti, giornalisti, magistrati alimentavano le cronache quotidiane. Umberto oggi dice, con semplicità disarmante: «Quando m’imbatto in un magistrato fannullone, penso: per il suo stesso lavoro Guido Galli è stato ucciso». E alla domanda, banalissima, sul perché suo padre non avesse avuto una scorta, risponde: «Non l’avrebbe voluta. Il rapimento di Moro aveva dimostrato che non serviva e che metteva solo in pericolo altre persone. Ma se in quegli anni tutte le persone a rischio avessero dovuto essere protette, forse le scorte non sarebbero bastate». Umberto Ambrosoli, 38 anni, ha l’espressione serena di chi ha saputo trarre molti insegnamenti dalla vita, e un bagaglio di pensiero che non s’improvvisa, ma che viene da lontano, da valori di famiglia tramandati nelle generazioni.

Avvocato Ambrosoli, che cosa c’è di attuale nella vicenda di suo padre? Che cosa insegna, come la si può interpretare trent’anni dopo?

«Oggi come allora la sensazione è di vivere in un Paese dove il rispetto delle regole, dell’ordinamento, dello Stato non è al primo posto. Manca il senso di responsabilità, manca la voglia di formare e di plasmare ogni giorno il nostro Paese, secondo le aspirazioni e gli interessi di ciascuno. Tutti dicono che il sistema è allo sfascio, che siamo circondati da brutture: ma non confrontano tutto questo con ciò che fanno per cambiare. Buttiamo via il Paese dei nostri figli».

E dal punto di vista storico?
«Mio padre non fu paladino della giustizia contro il Male, non combattè nessuna guerra santa: fece semplicemente il suo dovere. Altri avevano rifiutato quell’incarico come una grana da schivare, lui lo accettò con senso di responsabilità».

Disse subito a sua madre che era «solo», in quell’incarico: ci fu premeditazione?

«Egli si esercitò molto su questo pensiero. Si chiedeva: mi hanno lasciato solo per potermi schiacciare? Di certo poi nessun altro incarico di quel tipo fu affidato a un singolo professionista, ma sempre a un collegio di commissari: si capì che un singolo era più vulnerabile. Ma egli si costruì un team di poche persone fidate e fece, sostanzialmente, tutto da solo, in tempi rapidi, senza cercare un alibi nell’insufficienza dei mezzi. E l’eliminazione di Ambrosoli non risolse i problemi di Sindona».

I fatti raccontano che fu un delitto «di sistema». Dalla finanza vaticana dello Ior di Marcinkus a vaste parti della Dc, dalla finanza corrotta alla mafia: tutto sembrò convergere verso quel tragico epilogo.
«Vanno distinti i livelli di responsabilità. Quella penale da una parte, di chi ha voluto, organizzato e realizzato l’omicidio. E quella politica. Alcuni esponenti della Dc mantennero rapporti con Sindona anche dopo il delitto: ed erano rapporti ottimi, perché si trattava di soggetti che condividevano la stessa gerarchia di valori, le stesse regole per ingannare gli altri. Il sistema non bloccò Sindona quando fu chiaro che voleva scaricare i propri buchi sulle casse dello Stato. All’inizio del 1979 l’allora presidente del Consiglio riceveva avvocati ed emissari di Sindona che esplicitamente ammettevano come il piano di salvataggio dello stesso Sindona venisse interpretato da Sindona anche con le minacce rivolte ad Ambrosoli. Eppure nessuno decise di metterli alla porta! Per l’analisi delle responsabilità di Giulio Andreotti in merito alla vicenda Sindona si dovette aspettare il processo di Palermo del 1980: ma fu dichiarata la prescrizione per tutta la fase precedente il 1980».

Dalle vicenda ricostruite nel suo libro emerge invece l’alto livello di autonomia istituzionale della Banca d’Italia.
«Nel 1979 l’istituto fu oggetto di un’aggressione senza pari da parte di soggetti legati alla P2 e a logge massoniche, con Paolo Baffi (governatore) e Mario Sarcinelli (direttore) travolti da una bufera giudiziaria. La Banca d’Italia fu poi la prima a riconoscere che Ambrosoli era morto per il suo lavoro: si assunse la responsabilità di questa affermazione semplice ma ardita. Fu un bell’esempio. Quanto a Guido Carli, il predecessore di Baffi, fu lui a incaricare mio padre della liquidazione della Banca privata, nel 1974. Se è vero che egli nel 1972 avrebbe potuto commissariare le banche di Sindona, mentre si limitò a trasferire la valutazione sugli esiti delle ispezioni alla magistratura, è vero anche che con la nomina di papà diede il segno della posizione della banca».

La stessa P2, che ha profondamente segnato l’Italia di quegli anni, emerge nel corso di queste vicende.
«Fu un susseguirsi di eventi quasi bizzarro. Michele Sindona aveva simulato un rapimento in Italia e fu segretamente controllato. Si constatò che frequentava un medico della Polizia di Palermo - quello che gli sparò a una gamba per avvalorare il rapimento - che prima vedeva Sindona e poi andava ad Arezzo e a Castiglion Fibocchi. Incontrava Licio Gelli. E alcuni emissari di Sindona incontravano, a volte, la mattina Andreotti e la sera Gelli. I giudici Gherardo Colombo e Giuliano Turone avviarono una perquisizione e saltò fuori la lista degli iscritti alla P2».

Lei pensa che un delitto come questo potrebbe ancora accadere?

«Purtroppo la legalità, intesa come rispetto delle regole non è un valore condiviso in maniera diffusa. E non ci sono istituzioni imparziali, con l’eccezione della Banca d’Italia. Intorno alle persone che coprono incarichi di responsabilità e che vi imprimono i propri valori, si crea il vuoto; non l’esempio».

E Giorgio Ambrosoli sarebbe solo come allora?
«Forse un po’ meno di allora, ma avrebbe le antenne alzate per captare ogni cenno di solidarietà».

Niente è cambiato, allora?
«No, non dico questo. Per esempio, quando maturò una forte coscienza collettiva scoppiò Tangentopoli.

E poi, mentre nel 1979 in Parlamento si discuteva ancora se la mafia fosse un fenomeno unitario oppure una somma di casi singoli e scoordinati, trent’anni dopo il rappresentante degli industriali siciliani ha dichiarato “fuori” dall’associazione gli imprenditori che - vittime partecipi - pagano il pizzo. Fatti di questa portata sono possibili grazie al sommarsi di esempi positivi. Senza guerre sante, ma con senso del dovere e dello Stato. È questo che voglio insegnare ai miei figli».

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