«Con Umberto ho sbagliato, dovevo avvertirlo»

Roma «Con Umberto ho sbagliato. Lunedì scorso, prima di formalizzare la posizione italiana sull’intervento in Libia, avrei dovuto fargli una telefonata per avvertirlo». Berlusconi dà uno sguardo indietro e sì, a fare i conti con il bailamme sollevato dalla Lega negli ultimi giorni, qualche colpa dice di averla anche lui. Perché, spiega mercoledì sera durante una cena organizzata dalla deputata del Pdl Melania Rizzoli, prima di rendere pubblico il colloquio con Obama e ufficializzare il via libera ad «azioni aeree mirate» in Libia sarebbe stato meglio anticipare la decisione al leader del Carroccio. Non tanto perché la Lega potrebbe davvero non sostenere il governo nella sua scelta, eventualità che ancora ieri nelle sue conversazioni private il Cavaliere continuava ad escludere categoricamente. Quanto per una questione di buoni rapporti con un alleato che Berlusconi considera in assoluto il più affidabile. Ecco, è il senso del ragionamento del premier, il perché dei distinguo del Senatùr.
Un «errore», ammette il Cavaliere davanti a circa una trentina di commensali nella residenza romana di Angelo Rizzoli, uno dei salotti più esclusivi della Capitale. Anche se, aggiunge, «davo per scontato» l’avrebbero fatto Frattini e La Russa, rispettivamente ministri di Esteri e Difesa. Ed è questa la ragione per cui Berlusconi ha intenzione di vedere il leader del Carroccio al più presto, magari anche prima di lunedì, visto che la serata solitamente dedicata agli incontri con lo stato maggiore leghista è già impegnata da una cena con un gruppo di imprenditori a Villa Gernetto. Per spiegargli quello che andava dicendo proprio mercoledì sera a casa Rizzoli: «È stata una scelta dolorosa ma inevitabile, su cui è stata decisiva la spinta di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. Ed è chiaro che sono preoccupato, sono stato persino tentato dal fare un passo indietro». Nessuna ragione politica, ma un modo per far capire ai suoi alleati quanto sia stata sofferta la decisione sulla Libia. «Oggi nessuno - ha proseguito il premier - è in grado di prevedere come andrà a finire. Però, non potevamo rischiare di restare in mezzo al guado». Già, perché sul punto il leader dei ribelli libici è stato fin troppo chiaro durante la sua visita a Roma: i Paesi che si chiameranno fuori resteranno anche fuori dagli investimenti del dopo guerra. «E ad oggi - spiega il Cavaliere a cena - i nostri investimenti in Libia superano i 100 miliardi di dollari». Quanto ai rapporti con Parigi Berlusconi ne ha parlato in serata a una manifestazione elettorale: «L’Italia non si è inginocchiata davanti alla Francia. È esattamente il contrario».
Detto questo, il premier continua a non nutrire dubbi sulla fedeltà del Senatùr tanto dal non essere rimasto affatto sorpreso quando qualcuno gli ha riportato le rassicurazioni di Giancarlo Giorgetti. Che in questi giorni non ha esitato a dire nei suoi colloqui privati che «il Carroccio non farà mai cadere il governo». Il punto, però, è che adesso è il partito di Bossi a dover gestire una situazione complessa.
Se la prossima settimana si voterà la mozione sull’intervento in Libia la Lega sarà costretta a prendere una posizione comunque scomoda: coerente e contro il governo oppure incoerente e in linea con l’esecutivo. Ed è anche per questo che nel suo faccia a faccia di ieri con Napolitano il Cavaliere avrebbe chiesto una mano al capo dello Stato per evitare che si arrivi alla conta. D’altra parte, spiega il sottosegretario Santanché, «fino alle amministrative è inevitabile che ci sia una certa tensione con la Lega». Questione di voti.
Resta, smentite di prassi a parte, il fastidio verso Tremonti. Tanto che dai Rizzoli il Cavaliere s’è lasciato andare sul Parmalat: «Io sono un liberale, per me le regole del mercato valgono sempre». Che detto dopo che Galan ha definito il ministro dell’Economia «un socialista» ha un suo perché.

Ma Berlusconi non nasconde la sua irritazione neanche verso Maroni, che durante l’incontro con Sarkozy non ha fatto una piega per poi sparare ad alzo zero. «Noi - dice durante la cena - siamo un grande Paese e non possiamo andare in giro con il cappello in mano per 25mila migranti». Con buona pace di Maroni.

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