Utopia pacifista

C’era qualcosa di subdolo nei servizi televisivi durante le celebrazioni del 2 giugno, festa della Repubblica. Venivano fatte interviste alla gente che assisteva alla parata militare e, con assurdo spirito bipartisan, si ascoltava subito dopo chi aveva partecipato alla contromanifestazione pacifista della sinistra radicale. Così, il messaggio comunicato era esplicito: la sinistra è per la pace, gli altri no.
Questa distinzione ha qualcosa di profondamente mistificatorio, a cominciare dal «distinguo» espresso davanti alle telecamere dal presidente dei deputati, Bertinotti, il quale ha sostenuto che come Bertinotti il suo cuore va con i pacifisti, però come presidente gli toccava stare con gli altri. In questo modo si confonde la differenza tra il sentimento della pace e il pacifismo.
Il sentimento della pace appartiene alla nostra comunità nazionale, che ha sofferto nel secolo scorso due grandi guerre, che ha costruito la sua identità sui campi di battaglia, che non ha piegato la testa davanti alla brutalità degli invasori, subendo la violenza dei bombardamenti sulle città, sulle fabbriche, sulle case. Il sentimento della pace, che appartiene alla stragrande maggioranza degli italiani, nasce dall’educazione e dall’insegnamento della storia ed è tutt’uno con il sentimento dell’identità nazionale, tanto è vero che viene sancito dalla Costituzione.
Il pacifismo è tutt’altra cosa, e non è casuale che appartenga alla sinistra radicale. Il pacifismo nasce dal fallimento del mito della rivoluzione, della guerra insurrezionalista per la conquista del potere. Per uscire da questo vicolo cieco in cui li aveva portati la concretezza della storia, i comunisti creano un altro mito, l’ideologia pacifista. Preso in sé il passo è positivo: il comunismo rinuncia alla violenza come strategia per raggiungere l’emancipazione sociale, ma genera così un altro ordine di problemi.
Il pacifismo trasforma il sentimento nazionale della pace in un’utopia senza radici nella storia. È una risposta infantile ai problemi posti dalla politica: il pacifismo si sostituisce alla politica, che perde concretezza e diventa testimonianza.
Se la testimonianza per la pace è un fatto personale, assolutamente individuale o aperto allo spirito religioso, essa ha certamente una propria nobiltà. Ma quando il pacifismo si esprime come un’ideologia, la sua testimonianza è nichilista, è una rinuncia, non costruisce niente, nega la realtà, annulla l’identità di un popolo e di una nazione.
Nato come un tentativo di superare il fallimento del mito rivoluzionario, il pacifismo comunista ha finito per andare anche oltre gli obiettivi del tradizionale massimalismo comunista, ponendosi obiettivi assoluti, teorizzando utopie senza alcun margine di concretezza, irretendo i giovani in un progetto di palingenesi del mondo senza capo né coda e di fatto allontanandoli dalla politica, che è sempre il terreno del possibile, mai dell’assoluto.
D’altra parte l’infantilismo di questa sinistra è vecchio e mai superato. È il segno costante e visibile della sua incapacità di aprirsi a una prospettiva riformista, è la negazione profonda di quel riformismo che fa i conti con la storia. E il fatto che ci sia il presidente della Camera in doppiopetto, pacifista per vocazione, istituzionalista per obbligo (non certo perché lo abbiamo costretto noi), che ci siano ministri pacifisti è culturalmente una situazione disperante. Dal punto di vista politico invece c’è da sperare che queste incongruenze, infantilismi e contraddizioni storiche rendano ancora più traballante il governo.


Intanto noi, di fronte ai pacifisti e alle subdole interviste bipartisan della televisione, continuiamo a vivere nel nostro sentimento della pace, un sentimento vero, nato dalla storia passata e che potremo difendere affrontando con concretezza e disincanto i problemi politici che ci sottopone la realtà della storia presente.

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