In vacanza con Montale e Bene fra litigi e notti tragicomiche

Ospiti di una villa a Forte dei Marmi, il poeta e l'attore si odiavano (più o meno) cordialmente. Ecco perché...

In vacanza con Montale e Bene fra litigi e notti tragicomiche

Nel '70 per caso incontrai Montale alla stazione di Milano mentre saliva su un treno e feci il viaggio con lui. Montale aveva una lontana parentela con mia moglie, l'anno prima ci eravamo rivisti al Forte e parlammo animatamente per tutto il tragitto.

Lo invitai a trascorrere le ormai prossime vacanze estive nella nostra casa del Forte. Montale si mostrò lieto dell'invito e stabilimmo a tamburo battente che sarebbe arrivato il 20 giugno per trattenersi fino alla fine di agosto.

Fu così che ebbe inizio una lunga e affettuosa amicizia. Montale propose di darci del tu e automaticamente fu apostrofato come Eusebio, il soprannome usato dai suoi amici più intimi. Qualche amico letterato lo chiamava Arsenio, e Eugenio non lo chiamò mai nessuno.

***

Appena arrivato al Forte lo accompagnai nella cameretta che mia moglie Susi gli aveva assegnata al primo piano e che era provvista di un bagno e di una bella finestra sul mare. Lo aiutai a disfare le valigie e appoggiai sul tavolo la sua macchina da scrivere.

«Ho dimenticato di portare la carta!» disse.

L'indomani gli procurai una risma da trecento fogli con relativa carta carbone e, per perfezionare il tutto, gli infilai anche un foglio nella macchina da scrivere. In seguito, quando ne ebbi occasione, detti una sbirciatina, ma per tutta l'estate, con mio grande disappunto, Montale non vi scrisse niente.

A quell'epoca Montale aveva 74 anni ed era arrivato solo. Ma per le successive estati ci chiese se poteva portare anche Gina Tiozzi, la governante tuttofare che lo accudiva a Milano, e così dal secondo anno venne anche lei a stare da noi.

Montale era un ospite molto (...)

(...) preciso. Scendeva le scale esattamente alle dieci, faceva colazione per poi sedersi strategicamente sul terrazzino davanti al giardino a guardare chi entrava e chi usciva di casa. Prima delle undici mia moglie lo accompagnava alla spiaggia dove, su una poltroncina di paglia, conversava all'ombra di una tenda blu senza mai togliersi le scarpe di tela.

Aveva preso in simpatia una certa Itala, un donnone corpulento che girava tra gli ombrelloni portando sulla testa un cesto di vimini e che, per offrire la sua mercanzia, gridava: «Lavanda, origano!». Itala si inginocchiava davanti a lui, faceva una chiacchieratina e poi gli vendeva qualche sacchetto di lavanda.

Durante quell'estate la nostra casa si riempì di lavanda. Ve n'era in ogni cassetto e in ogni armadio.

L'anno dopo fu pubblicato Satura e vi trovai una poesia ispirata a Itala.

Nel pomeriggio, Montale tornava a sedersi sul terrazzino per dipingere su fogli di carta cinese che si era portato da Milano. Usava una tecnica molto personale. Con le dita spiaccicava i colori che lui chiamava naturali, quali dentifricio, fondi di caffè e, per ottenere il verde, delle erbette del giardino. Adoperava anche qualche pastello perché, ahimè, in natura non era riuscito a trovare né il blu né il giallo. Per il rosso, si faceva prestare da mia moglie un vecchio tubetto di rossetto.

Una volta mia moglie per scherzare gli disse che era un pittore della domenica e lui si offese.

«Casomai un poète du dimanche» la corresse dopo averle tenuto il broncio per un'ora.

Cenavamo in giardino, spesso con qualche ospite e, alle undici in punto, augurava la buona notte e si ritirava in camera sua.

Tutto fu idilliaco fino a quando invitammo anche Carmelo Bene e Lydia Mancinelli.

Dal primo giorno fu evidente che gli orari dei nostri ospiti erano sfasati. Lydia scendeva le scale alle quattro del pomeriggio annunciando con aria tragica che Carmelo era moribondo e che forse si poteva ancora salvarlo portandogli una tazza di caffè.

Dopo un'ora scendevano entrambi, ma col mal di testa. Verso le sei andavano alla spiaggia e alle otto tornavano per cena. In privato, Carmelo diceva male di Montale sostenendo che non era un vero poeta e Montale diceva male di Carmelo dandogli del guitto, anzi, del delinquente abituale. Ma quando poi erano insieme, discutevano animatamente per ore su vari argomenti e sembravano andare d'accordo.

Dopo le undici, l'ora in cui Montale andava a letto, in sala cominciava la grande nottata.

Nessuno andava a dormire prima delle sei del mattino e Carmelo si scolava da solo una bottiglia di whisky. Amava organizzare delle recite, generalmente l'Amleto, distribuendo i ruoli in modo assurdo. Per esempio, a me assegnava il ruolo di Ofelia e a Susi quello di Polonio. Conosceva i testi a memoria, impostava le scene, insegnava le battute e suggeriva i gesti. A un nostro amico capitato per caso impose di interpretare il fantasma del re e a un altro il teschio di Jorik, naturalmente obbligandoli a stare immobili e zitti. Era un gran divertimento e le ore passavano senza che venisse mai sonno.

Il problema si poneva alle dieci della mattina dopo quando scendeva Montale e qualcuno doveva pur esserci a riceverlo e far colazione con lui! Mia moglie ed io ci accordammo per dei turni. Chi si fosse occupato di Montale sarebbe andato a letto presto e i turni sarebbero stati di tre giorni per uno. Poi, in pratica, mia moglie andò sempre a letto presto ed io feci le nottate.

Carmelo era diventato un po' noioso con le sue continue critiche acide su Montale. In quel periodo si era messo in testa che l'unico vero poeta italiano fosse Dino Campana e che tutti gli altri non esistessero.

Una sera, per dimostrare la superiorità di Campana, declamò anche dei versi di Ossi di Seppia, ma con tale maestria che lasciò tutti a bocca aperta. Ci venne il sospetto che Carmelo sapesse tutto Montale a memoria e, per accertarcene, lo provocammo citando singoli versi scelti a caso.

Ad ogni attacco Carmelo faceva seguire l'intera poesia recitandola senza enfasi e con la sua naturale bravura. In pratica si contraddisse, poiché l'uditorio non poté fare a meno di paragonare sfavorevolmente Campana a Montale. Da questo episodio fu dedotto che l'atteggiamento di Carmelo nei riguardi di Montale non era che una polemica mirata a provocarlo.

Lydia era molto gelosa e aveva il suo bel daffare a difendersi da tutte le ragazze che ronzavano intorno al suo Carmelo. Una notte in cui ero a Firenze e Susi era andata a dormire, Carmelo si attardò in sala con una povera ragazza che, plagiata dalla sua notorietà, ascoltava a bocca aperta le sue roboanti dichiarazioni d'amore.

Lydia, che al suo solito si era appostata dietro a una porta per origliare, a un certo punto non ci vide più. Uscì come una pantera affamata, scacciò la poveretta terrorizzata e si gettò su Carmelo per sbranarlo. Non lo sbranò, ma con un morso gli staccò il lobo dell'orecchio destro, e poi lo sputò.

Carmelo si mise ad urlare come nella scena finale del Re Lear. Lydia, rendendosi finalmente conto di ciò che aveva combinato, si mise a singhiozzare e, non sapendo che altro fare, andò a svegliare Susi.

Nella colluttazione avevano anche rovesciato e rotto un lume di ceramica oltre a diversi piccoli oggetti che si erano fracassati sul pavimento. E intanto Carmelo con la mano sull'orecchio mugolava di dolore spargendo sangue dappertutto.

Susi non perse la calma. Con un asciugamano gli fasciò la testa in modo da non macchiare di sangue tutta la sala, poi raccattò il brandello dell'orecchio, lo involtò in un batuffolo di cotone, intimò loro di calmarsi, li caricò in automobile e li portò all'ospedale.

Durante il tragitto Lydia, che questa volta temeva di averla fatta troppo grossa, si raccomandava a Carmelo di perdonarla, ma lui le urlava:

«Taci sciagurata, sei fuori dalla mia vita!» e ricominciava a mugolare reggendo stretto l'asciugamano.

Giunti al pronto soccorso, Lydia provò a passare avanti a tutti gridando a gran voce che il divo aveva perso un orecchio e che, per il bene del teatro e dell'arte in genere, chiamassero un primario, un luminare, qualcuno di fama internazionale, ma gli infermieri non le dettero il minimo ascolto. Susi invece si sedette con pazienza tenendo in mano il batuffolo di cotone.

Finalmente venne il loro turno e un giovane dottore, per nulla impressionato, per prima cosa scacciò Lydia perché disturbava coi suoi monologhi e, quando Susi gli allungò il batuffolo di cotone, disse:

«Bene, questo può far comodo» e con ago e filo si accinse a ricucire il lobo all'orecchio. Poi un infermiere lo fasciò con una benda e Carmelo uscì dall'ospedale con un ridicolo colbacco bianco sulla testa.

Quando tornarono a casa era l'alba e finalmente andarono a dormire.

***

L'indomani mattina, alle dieci in punto, scese Montale. Notò subito che in sala mancava il lume.

Gli fu spiegato che il gatto l'aveva rotto durante la notte.

«Già, già» disse. «È vero, stanotte ho udito degli strani rumori».

Poi notò che sul camino mancavano anche dei piatti decorativi.

«Anche quelli li ha rotti il micio?»

Alle quattro scese Carmelo con la testa fasciata e l'occhio stralunato. Lydia spiegò a Montale che il gatto aveva graffiato anche Carmelo.

«Ma che micio cattivo! Ma come sei tremendo», disse Montale accarezzando il gatto che intanto gli si era accoccolato sulle ginocchia. «A vederti così non si direbbe, ma pare che di notte si desti in te l'istinto della tigre».

Per il resto di quell'estate Montale non fece che commenti sul gatto. Lo incolpò di ogni possibile malefatta. Quando lesse sul giornale che a Milano era crollato un palazzo, dette la colpa a quel gatto sinistro che probabilmente, calzando gli stivali del Marchese di Carabas, durante la notte aveva raggiunto Milano, dato una zampata al palazzo, ed era tornato al Forte in tempo per far colazione nel suo piattino.

Coincidenza singolare. Pochi mesi prima, Carmelo aveva dato alle stampe una sua opera intitolata L'orecchio mancante.

Per tre bellissime estati Montale trascorse le sue vacanze in casa nostra.

Usando una parola un po' in disuso, sosteneva di essere in villeggiatura. Raccontava della sua infanzia alle Cinque Terre e delle piccole barche in legno chiamate Fulmine, Ardita e Saetta sulle quali aveva remato da bambino.

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