Roma - Ma quale rottura con Antonio Di Pietro: ieri, dal quartier generale veltroniano, era tutto un frenare e smussare. E lo stesso segretario del Pd, raccontano, se la è presa con i giornali che hanno dato un’enfasi «eccessiva» a quella che, ha spiegato, era «solo la risposta scontata» a una domanda del conduttore di Che tempo che fa, Fabio Fazio.
Tant’è che l’Unità, che non sarà l’organo ufficiale del Pd ma ne rappresenta più fedelmente gli umori, si è ben guardata dal dare rilievo al presunto divorzio con l’ex pm e il suo partito. «Nessuna novità - spiega Giorgio Tonini, buon amico di Veltroni - noi restiamo comunque interessati a intese con Idv in tutta Italia per le amministrative. E sulla Vigilanza continueremo a sostenere la candidatura di Leoluca Orlando». Il problema è che c’è la questione Abruzzo ancora tutta aperta: il 30 novembre si vota, le liste vanno chiuse tra poco, e il Pd sta disperatamente tentando di convincere Di Pietro a fare «un passo indietro», a rinunciare al suo candidato presidente e a trovare un accordo a tre su un nome che vada bene anche all’Udc. Ma per ora «Di Pietro non si smuove neppure con le cannonate, e il rischio è che si vada al voto ognuno per conto suo, verso una sconfitta assicurata», confidava a sera il plenipotenziario Pd per l’Abruzzo, Giovanni Lolli.
Già, Di Pietro continua imperterrito la sua guerra dei nervi verso l’(ex?) alleato: tiene fermo Orlando costringendo anche il Pd a farlo; e il principale terrore di Veltroni, spiegano i suoi, è che il Pdl gli giochi in casa eleggendo un uomo del Pd, ad esempio Latorre, esponendolo alle accuse dipietriste. Di mediare per dar vita a una coalizione con Pd e Udc per provare a sconfiggere un centrodestra fortemente in vantaggio all’ex pm importa poco o nulla; per lui l’Abruzzo è il banco di prova di una partita tutta interna all’opposizione, per assestare una nuova umiliazione ad un Pd diviso e indebolito. I sondaggi danno il suo partito vicinissimo al Pd, e lui va dritto per la sua strada: Veltroni è libero di accodarsi al suo candidato (il parlamentare Carlo Costantini, ex Margherita uscito dal Pd dopo la mancata ricandidatura e accolto a braccia aperte da Tonino), ma solo alle condizioni dettate da Idv. E nel Pd non si esclude che possa andare a finire proprio così, tanto è il timore di misurarsi da soli in condizioni difficilissime.
E Di Pietro non fa nulla per rendere le cose più facili al Pd: «Si accorgerà domani che una rottura con l’Idv non potrà essere praticabile per lui», manda a dire a Veltroni. «Nei prossimi mesi - afferma in un’autointervista pubblicata sul suo blog - si vota in tre o quattromila realtà amministrative, dove senza l’Italia dei valori non riescono neanche a vincere una bambolina». Il leader del Pd cerca di parare il colpo, «le bamboline non ci sono, e senza il Pd nel centrosinistra nessuno può vincere nessuna prova elettorale». E a sera, intervistato dalle Iene, dà del «demagogo» a Di Pietro, ma «in senso buono», precisa, e confida che l’alleanza con lui «nelle stesse condizioni, la rifarei».
Peccato che nel frattempo quel «divorzio» da Di Pietro che Veltroni per ora non può permettersi sia stato preso per buono da molti, nel Pd e dintorni. C’è Marco Follini che applaude: «Un gesto di chiarezza e di libertà»; c’è Franco Marini secondo il quale «il livello di polemica tra noi e Idv è ormai andato assolutamente oltre l’accettabile, e Veltroni, decidendo che così non si può andare avanti ha la mia condivisione». C’è Repubblica che ieri incitava il segretario Pd a riconoscere l’errore di quell’alleanza e a cambiare strategia cercando intese con l’Udc, e il Riformista che oggi, sulla stessa linea, invita a «scaricare» definitivamente l’ex pm e a guardare a Casini. E c’è D’Alema che si tira fuori dalla polemica («non sono io il protagonista di questa disputa») ma accusa Di Pietro di «lavorare a dividere il centrosinistra, per favorire la vittoria di Berlusconi». Mentre Arturo Parisi reclama una «sede democratica» in cui discutere di un’alleanza che - a suo parere - va invece sostenuta.
Un coro, che - in buona o cattiva fede - finisce per aumentare la confusione nel Pd e le difficoltà del suo leader. Che, confidano dal suo entourage, sta osservando con crescente preoccupazione le manovre di ricollocamento interno degli stati maggiori Pd: da una parte l’ala del Ppi con cui si era alleato, quella dei Franceschini e dei Fioroni, che si sta sfilando in attesa degli eventi. Dall’altra l’ala ex Ds che si riorganizza sotto le bandiere della dalemiana Red. E il tam tam di voci incontrollate che già parlano di un futuro «segretario di transizione» per il dopo europee, in una ridda di nomi: sarà Enrico Letta, no sarà Pierluigi Bersani, macchè sarà Piero Fassino. Tutti - nelle voci che si rincorrono - con l’ipotetico imprimatur di D’Alema, a meno che - azzarda qualcuno - l’ex premier non decida di scendere in campo in prima persona.
«Il problema - sospira Lolli - è che non è vero che dopo Veltroni c’è un altro e si ricomincia: dopo Veltroni si rischia l’implosione, e andiamo tutti a casa». In uno scenario fantapolitico, ma non troppo, che vede il Pd ridividersi in ex Ds a sinistra con quel che resta dell’ex Correntone e del Prc di Vendola, e in ex Ppi al centro con Udc e Rutelli. C’è chi, come Goffredo Bettini, pensa che sia ancora possibile uno scatto di reni e lo propone a Veltroni: liberarsi dal condizionamento di una vecchia classe dirigente aggrappata alle appartenenze del passato, e mettere in pista una «nuova leva» di giovani quadri, facendosi forte dell’investitura delle primarie.
Ma per ora resta inascoltato: il leader pensa alla manifestazione di sabato, prima prova di piazza del suo Pd, e spera in una vittoria di Obama in Usa, che «cambierebbe lo scenario anche in Italia». E intanto tenta di salvare il salvabile in Abruzzo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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