(...) attraverso una maggiore produttività e tenere fuori dal teatro i musical e i concerti è una battaglia di retroguardia». Questo ha scritto Massimiliano Lussana su queste pagine sabato scorso.
Un ragionamento che fila liscio come l'olio, se inquadrato in un'ottica economica aziendale. Ma è proprio questo il punto. Siamo sicuri che la diffusione dell'arte possa rientrare in una logica di mercato? È giusto considerare l'arte una merce da vendere e su cui guadagnare? Io penserei di no. Non certo per un discorso di convenienza, su questo si deve riconoscere la logica schiacciante di Lussana, che dà una ricetta infallibile per avere platea e cassa sempre piena. Ma qui stiamo parlando di arte. Non di intrattenimento: l'arte non si misura né con la sala piena, né con l'applausometro.
L'arte in genere, l'arte musicale in questo caso, è un valore universale, una tradizione specifica della nostra cultura, una ricchezza che all'estero ci invidiano e che continuano a produrre, con i nostri cantanti, con i nostri musicisti, con i nostri direttori d'orchestra.
L'opera italiana - di autore italiano e di realizzazione preferibilmente italiana - è sempre richiestissima nei grandi teatri di tutto il mondo. Solo in Italia la buttiamo via. Perché? E qui veniamo al nodo. Il problema è essenzialmente culturale: la questione se tenere aperto un teatro o se chiuderlo è solo un riflesso di questa lacuna nella nostra cultura. E qui parliamo di cultura con la C maiuscola, non di destra o di sinistra. Cultura e basta. In Italia non conosciamo più questa tradizione immensa, non sappiamo cosa cè dietro ad uno spartito, che fine opera di architettura sottende alle pagine dei grandi maestri del passato, non siamo in grado di capire che la musica non è sottofondo, ma qualcosa che si ascolta, che si deve comprendere. Non una banale successione di note, una melodia più o meno gradevole; e tanto più non si possono considerare «eredi del melodramma» lavori musicali che portano semplicemente lo stesso titolo di capolavori indiscutibili ma che mancano del tutto dell'ingrediente primario della nostra opera ottocentesca: la connessione tra musica e drammaturgia. E qui non me ne vogliano Lussana e tutti i fervidi ammiratori della Tosca di Lucio Dalla. Allora arriviamo pian piano a capire perché il Carlo Felice non dovrebbe accogliere questi generi. In primis appunto per rispetto e riconoscenza dei nostri valori culturali. Ma anche perchè i teatri dell'opera non hanno la struttura adatta: duemila posti per un musical sono troppo pochi, ci vogliono ben altri spazi (e ben vengano), anche per ragioni economiche di rapporto tra costi di produzione e affluenza del pubblico.
Infine mettiamoci anche una considerazione tecnico-acustica: l'impianto di amplificazione necessario ad un'opera del genere (perché, diciamolo, questi cantanti - a differenza dei colleghi tradizionali - hanno un bisogno vitale del microfono, altrimenti non li senti già a metà platea) è inapplicabile al Carlo Felice: non si snaturerebbe solo il teatro, ma anche lo spettacolo stesso.
Ma la vera arte non si misura con gli applausi
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