Il vero coraggio è amare Cristo

Bruno Fasani

Spiegare le prese di posizione di monsignor Milingo, il vescovo africano che da tempo ci sta abituando a continui colpi di scena, forse lo potrebbe fare, con migliori fortune della chiesa, la psicologia e l’anagrafe. Non ci interessa neppure enfatizzare il caso, quasi che, dalla vicenda, potesse scaturire una qualche indicazione, capace di riposizionare il sentire della teologia e della legge ecclesiastica.
Più che altro varrebbe la pena consegnare il tutto al silenzio e alla fermezza, senza quella rincorsa timorosa al contenimento dello scandalo, che non profuma né di coraggio, né di autentica misericordia.
Comunque sia, l’ordinazione di quattro preti sposati, da parte di Milingo, e la richiesta di allargare il ministero sacerdotale a chi ha famiglia ripropone un dibattito su cui sembrano intrecciarsi luoghi comuni e valutazioni talvolta approssimative.
In particolare sono due gli slogan su cui fanno forza i sostenitori dell’abolizione del celibato: il fatto che si tratterebbe di un’istituzione ecclesiastica, non richiesta da Gesù Cristo e il fatto che la disposizione canonica, legata al Concilio Lateranense del 1139 sarebbe la risposta giuridica della chiesa per preservare il proprio patrimonio, evitando di consegnarlo in eredità ai figli dei preti e dei vescovi. Non mancano, poi, i sostenitori del principio che si può parlare solo a partire dall’esperienza. Come potrebbe un prete parlare di famiglia se lui stesso non ha provato cosa vuol dire? È una domanda apparentemente intrigante. In realtà, essa è figlia di quella cultura moderna, ispirata all’empirismo, che confonde la misura della realtà con la sua sperimentabilità, per cui sarebbe vero solo ciò che si può provare.
Per tornare alle due prime obiezioni, non è comunque vero che la prassi celibataria sia un precetto ecclesiastico tardivo. È vero che nella sua formulazione essa ha avuto bisogno di un paio di secoli per trovare una sua prima precisazione canonica, ma è altrettanto vero che la sua sorgente è nel Vangelo stesso, inteso come ispirazione ed applicazione originaria.
Un buon giurista ci spiegherebbe a questo punto che bisogna distinguere tra ius e lex, cioè tra il diritto e la sua formulazione legislativa. Tutti sanno che i Romani, interpreti del più grande genio giuridico di tutti i tempi, solo tardivamente hanno codificato, nelle norme dei codici, i principi praticati dal diritto. Così è stato per i popoli germanici, senza che nessuno si sognasse di considerare questo ius come non vincolante o lasciato alla libertà dei singoli.
Per venire al celibato, già nel 300 d.C., al Concilio di Elvira, in Spagna, si ribadisce che «si è d’accordo sul divieto completo per vescovi, diaconi e preti, che devono astenersi dalle loro mogli e non generare figli. Chi ha fatto questo deve essere escluso dallo stato clericale». Evidentemente queste affermazioni testimoniano l’accesso al sacramento dell’Ordine di gente sposata, alla quale però, secondo una prassi già diffusa e consolidata, era richiesto di non usare del matrimonio precedentemente contratto.
La ragione di tanto rigore fondava la propria forza su una consuetudine largamente praticata, che attingeva direttamente alla comunità apostolica.
È singolare come si tenda a parlare di questo tema senza far riferimento alle indicazioni di Gesù stesso, là dove dice: «Chi avrà lasciato casa, campi, fratelli, moglie» (Mt. 19), o dove chiede di farsi eunuchi per il Regno di Dio. È nella vicenda del suo Maestro che il discepolo trova le indicazioni di una sequela più radicale, dove il celibato si identifica con un sostanziale atto di disponibilità per Dio e per gli altri. Esso non si configura come una questione di sesso ma come un atto di fede e la sua crisi non nasce da una sessualità frustrata, quanto da un rapporto di fede logorato. Diceva Carlo De Foucauld che l’amore, quando è vero, è inseparabile dall’imitazione. Soprattutto quando uno dice di aver messo Gesù Cristo come fondamento esclusivo del proprio vivere.

La crisi di vocazioni che segna, in maniera più marcata che nel cattolicesimo, le chiese ortodosse e quelle protestanti, dice che non basta una donna vicino per sentire il fascino di una vita consacrata.

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