IL VERO MONTANELLI

Quando Indro Montanelli diventò direttore aveva compiuto i 65 anni. Si compiaceva di sottolineare la singolarità d’un debutto arrivato all’età in cui di solito si è a fine carriera, e ci si occupa della pensione più che di cimentarsi in nuove avventure professionali. Da allora ad oggi, anche se sono trascorsi solo pochi decenni, queste valutazioni sono cambiate. Un ultrasessantenne non è più un vecchio, è un diversamente giovane. Molti alti funzionari e magistrati, raggiunti dall’età del collocamento a riposo, si dedicano con lena affannata, finché ancora hanno un briciolo di potere, a organizzare ciò che faranno da grandi. Ossia alla conquista della poltrona su cui siederanno come emeriti.
Non era il caso di Montanelli, naturalmente. Che in questo suo insistere sull’incongruità anagrafica dell’incarico direttoriale ci metteva, come in altre attestazioni d’umiltà, un po’ di civetteria. Perché era in pieno vigore intellettuale, perché conosceva un momento di straordinario slancio morale, soprattutto perché sapeva che, non essendo mai stato fregiato dei galloni ufficiali di direttore, aveva comandato più di qualsiasi direttore nell’ammiraglia dei quotidiani italiani, il Corriere della Sera. Dove i cambiamenti avvenivano sempre con il suo consenso e dopo il suo consiglio. Si fosse voluto imporre, avrebbe preso il timone del Corriere chissà da quanto tempo. Ma riteneva che la sua vocazione fosse un’altra, quella dell’impareggiabile solista capace d’incantare ogni platea. Era dunque privo di gradi come lo era Napoleone, il petit caporal. Inoltre Indro, uomo metodico e per alcuni aspetti abitudinario, non voleva sentirsi condizionato e schiacciato da doveri burocratici. Puntualissimo - come tutti i puntuali ha passato la vita ad aspettare i ritardatari - e scrupolosissimo nel lavoro, si considerava tuttavia un battitore libero. Sapendo oltretutto quanto la metodicità del quotidiano potesse nuocere alla sua immagine - in massima parte leggendaria - di toscanaccio bizzoso e imprevedibile.
Insomma, per farla breve, Montanelli diventò direttore di malavoglia. O, per essere più precisi, lo divenne sollecitato dalla voglia di far qualcosa per una Italia che gli pareva avviata sulla brutta china di un conformismo ipocrita, di un politicamente corretto che scorrettamente voleva imporre le sue verità agli italiani non piazzaioli, alla scoraggiata maggioranza silenziosa. A costo di attirarmi, di là dove Indro ci sta guardando, la sua riprovazione, debbo aggiungere che quel direttore fu, per il momento scelto e per il modo in cui la scelta avvenne, un capopopolo. E lui lo sapeva. Capire e servire i lettori, trascinarli con sé, compiacerli anche quando fingeva di contraddirli era il suo mestiere. Per questo disponeva di molte magie: quella della penna - o della lettera ventidue -, quella della figura carismatica, quella della parola. Quest’ultima accresciuta - ed è uno dei tanti paradossi montanelliani - da un accenno di balbuzie.
Ma avendo avuto in dono da madre natura, e poi accresciuto con un lavoro assiduo, queste qualità straordinarie di prim’attore, Indro era anche, per rimanere al linguaggio teatrale, un regista? Ossia, per dirlo banalmente, è stato un grande direttore? Vediamo. Non era, per usare un termine di facile comprensibilità, un uomo di macchina: mancandogli, degli uomini di macchina, i culi di pietra che tutto vedono e tutto controllano, sia la pazienza sia il puntiglio. Che poteva diventare, in uno come Giulio De Benedetti della Stampa, una sorta di sadismo creativo. Non fosse stato per la sua riluttanza alle cariche, lo si poteva vedere bene come uno di quei direttori del vecchio Corriere - Emanuel, Missiroli - che davano alla testata il prestigio del loro nome e pochissima operosità. (Poiché Missiroli si compiaceva di massacrare gli articoli che gli erano portati in bozze, creando problemi in tipografia, il saggio Michele Mottola gli sottoponeva a volte bozze d’articoli non in programma. E si divertiva pure).
Ma con Montanelli il giuoco non sarebbe riuscito. Leggeva poco ma intuiva tutto. Gli bastava un’occhiata alle prime tre righe d’un pezzo per capire se era buono o no, così come gli bastava annusare un libro per valutarlo. Era svogliato e incombente insieme. Non aveva snobismi intellettuali, da vero giornalista sapeva quanto contino per la fortuna d’un foglio i temi popolari. Alcuni argomenti li aveva in uggia non perché fossero popolari, ma perché gli pareva che non portassero da nessuna parte, che fossero un pestar l’acqua nel mortaio. Per i suoi giornalisti aveva rispetto anche perché li aveva scelti lui, e ogni bocciatura d’un redattore diventava in qualche modo anche una sua bocciatura. Indro non aveva la capacità - che è propria dei direttori per vocazione - di punire o licenziare. Sapeva premiare, con uno dei suoi preziosi elogi, la bravura dei bravi.
Per gli errori dei non bravi si sfogava magari verbalmente: mai con provvedimenti. Faceva eccezione per le firme importanti. Le battute feroci che aveva risparmiato ai meno importanti, con quelli che lo erano - e che magari ritenevano soltanto d’esserlo - fioccavano severe. Era prodigo d’aiuto e d’incoraggiamenti per i giovani che stimava, a volte assumendo, lui che padre non era mai stato, atteggiamenti affettuosi e paterni. Lo stare in tipografia gli piaceva. E lui piaceva ai tipografi che giustamente lo consideravano una star, ma che erano trattati alla pari. Me ne intendo poco, però non credo che avesse molto gusto grafico. Il suo Giornale - che ambiva ad essere un Corriere senza cedimenti - aveva contenuti di eccellenza e una veste che, vista oggi, appare grigia. (Vero è che quando Montanelli, con la Voce, si lasciò incantare dalle sirene d’una grafica innovativa, fu il disastro, la rivoluzione risultò mille volte peggiore della conservazione).
Quando era solista, Montanelli aveva sicuramente avvertito gli stimoli della competizione con altri «grandi»: Curzio Malaparte che aborriva, Orio Vergani del quale riconosceva il talento ma del quale disprezzava il carattere, o piuttosto la mancanza di carattere, Dino Buzzati che adorava per il suo candore di fanciullo con un sottofondo di perversione. Ma in lui direttore non ho mai avvertito il morso dell’invidia. Al Giornale, impegnato - vogliamo usarlo il termine retorico e logoro che imperversa? - in una missione di patriota oltre che di giornalista, era al di sopra di queste miserie, o tale mi pareva. Confesso d’essere rimasto un po’ stupito per alcuni accenni invidiosi de I conti con me stesso.
Montanelli non è stato semplicemente un direttore. È stato a lungo una bandiera e un simbolo. Non aveva toni da crociata, estranei al suo linguaggio e lontani dalla sua ironia, ma in un momento difficile fu crociato - ossia portatore di profonde convinzioni - forse più di quanto lo è stata, con la sua veemenza, Oriana Fallaci. La stagione del primo Montanelli direttore è stata contrassegnata dal coraggio. E anche dal sacrificio della gambizzazione.

Fa male il vedere che alcuni vogliono ridurre tutto alla meschinità della querelle finale con Berlusconi. Indro Montanbelli è stato un grande direttore? È stato qualcosa non dico di più o di meno, sicuramente qualcosa di diverso. Un genio.

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