Il vero scontro di civiltà? Si combatte a colpi di bicchiere (o di tazzina)

La sete uccide più della fame. E molto più in fretta.
Partendo da questa considerazione si potrebbe pensare che quello che si beve influenzi la civiltà, e il modo di vivere, più di quello che si mangia.
Ecco che allora ha senso parlare di cultura del bicchiere. Una cultura che contrappone la primitività dell’acqua alle civiltà del vino, della birra e, perché no, del latte (quello a cui adesso la Coca-Cola Company vuole aggiungere le bollicine, portandoci ad un ulteriore passo evolutivo). Almeno questa è la tesi che sta alla base di tutto un nuovo filone di ricerca a cui si stanno dedicando storici e sociologi.
Ad esempio, Una storia del mondo in sei bicchieri (Codice edizioni, pagg. 224, euro 22) è diventato un classico del genere. L’autore Tom Standage, è una delle penne più apprezzate dell’Economist, riassume la civiltà in sei tappe tutte da tracannare. Un mondo mesopotamico che scopre la fermentazione e beve birra da cannucce di paglia (evitandosi così tutte le infezioni che provengono dall’acqua sporca); una civiltà greco romana che fa del vino la sua piattaforma culturale; un mondo moderno e coloniale costruito sul rum e sui distillati della canna da zucchero; e, infine, la grande accelerazione della modernità fatta di caffeina, di imperiali tazze di the e di bolle zuccherose che culminano nell’era della Coca-Cola. È soprattutto su questa bevanda che Standage racconta gli aneddoti più gustosi. Tanto per citarne uno: la Coca-Cola è riuscita a far breccia persino nella guerra fredda. Il generale russo Georgi Kostantinovich Zhukov, gran vincitore della Seconda guerra mondiale, ne andava pazzo: gliela aveva fatta provare Eisenhower. Per mantenere buoni rapporti il presidente Truman autorizzò la Coca-Cola a produrne una versione senza coloranti che veniva recapitata a Zhukov in finte bottiglie di vodka. Certo è ancora poco rispetto all’aggiungere delle bolle al latte, un capitolo che il libro di Standage non è arrivato in tempo per affrontare. Così come il libro di Charles Bamforth, Birra e vino (Donzelli, pagg. 182, euro 16), fa in fondo riferimento ad una guerra ormai antica. Tanto per dire, già nell’Inghilterra settecentesca si elogiava la birra contro le bevande a più alta gradazione (in quel caso non tanto il vino quanto piuttosto il gin) e di questo è rimasta traccia nelle stampe di William Hogarth.
Ora lo scontro di civiltà attorno a quello che beviamo o mangiamo ha assunto una forma ben diversa, meno artigianale e molto più industriale. Così, se si deve parlare di caffè, conviene partire da Starbucks. Il buono e il cattivo del caffè di Taylor Clark (Egea, pagg.

260, eruo 19), perché in buona parte del mondo questo brand è diventato sinonimo della bevanda, alla faccia delle nostre italianissime moka (avremmo dovuto difendere meglio l’omino con i baffi).
E senza essere moralisti, bolle o non bolle nel latte, il rischio e che alla fine resti un solo titolo: La fine del cibo (Paul Roberts, Codice edizioni, pagg. 460, euro 28).

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