«Versione di Barney»? Sceglietevela voi perché Panofsky tanto se ne infischia

Barney Panofsky è tornato. Dà di sé una nuova versione, cinematografica in questo caso. Una versione in cui bisogna usare meno fantasia - le facce di Dustin Hoffman e Paul Giamatti sono indimenticabili come le curve morbide di Rosamund Pike - e nella quale il peso di quasi cinquecento ponderose pagine si riduce a 132 minuti in cui la vena più cinica del romanzo di Mordecai Richler viene moderata a favore di quelle parti che toccano la sfera del sentimento e del rimpianto. E se il film di Richard Lewis ha riportato in auge anche il romanzo ri-lanciandolo in queste settimane nella top ten delle vendite, La versione di Barney (Adelphi, pagg. 490, euro 12) ha anche aperto un curioso gioco di appropriazione, o meglio di riappropriazione.
Il successo editoriale italiano di Richler, data, infatti, al 2001, quando sull’onda di una martellante campagna del Foglio la bizzarra avventura esistenziale dell’ebreo Panofksy, con i suoi tre matrimoni, gli scheletri nell’armadio, gli odi viscerali e il talento buttato nel cesso, sfondò rapidamente la soglia delle 100mila copie e poi iniziò la lunga corsa oltre le 300mila. Allora la squadra dei foglianti, Cristian Rocca e Andrea Marcenaro in testa, ebbe il genio di notare per prima la forza letteraria di questo strano ebreo canadese, follemente anglofono pur vivendo nel francesissimo Québec. In un tormentone che finì per influenzare a lungo tutte le pagine del quotidiano-boutique di Giuliano Ferrara - la rubrica di Marcenaro si chiama ancora oggi «Andrea’s Version» - quello che più piacque ai foglianti era il Panofsky sofferto ma cinico e capace di pisciare sopra a tutto ciò che avesse l’aria di essere politicamente corretto, quello che si descriveva così: «Sono sopravvissuto alla scarlattina, agli orecchioni, a due rapine a mano armata, alle piattole, all’estrazione di tutti i denti, a un’operazione all’anca, a un processo per omicidio e a tre mogli» (cito a memoria perché del Foglio ero correttore bozze ed era impossibile correggerle senza Richler sulla scrivania).
Insomma a conquistare giornalisti e lettori furono gli attacchi contro la «Nazisalutista», i fax teppistici al professor Blair Hopper (nuovo compagno dell’amatissima ex moglie Miriam) firmati Sexorama e inviati a scuola, la descrizione crudissima della malattia. E all’epoca all’intellighenzia radical chic bruciò parecchio essere arrivata seconda su Richler, regalando alla destra che pensa (Dio che fastidio questo concetto a sinistra!) un suo Woody Allen, molto meno addomesticato e addomesticabile.
Ecco perché questa volta, sul film appena arrivato in sala, nessuno si è fatto cogliere impreparato. A partire da Repubblica, dove Francesco Merlo si è dedicato alla pellicola di Lewis dicendo che «spazza via gli umori e i pregiudizi della simpatica campagna promozionale che in Italia fece a Barney il Foglio... mette fuori la leggerezza allegra accanto all’esibizione pesante delle spazzature umane...». Insomma è l’idea di aver trovato l’altro Richler. Quello dei «colori chiari e candidi dell’amicizia, dell’amore, della pietà e della famiglia» e della possibilità di rivendicarlo.

C’è da prendersela? Un critico politicamente corretto direbbe che uno dei segni della grandezza letteraria è la molteplicità delle letture di un romanzo. Richler-Panofsky invece direbbe, versandosi un goccio: «Non credete a una parola di quello che dicono su di me. Sono tutti dei bugiardi patologici. Tutti».

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