Manila Alfano
Una mano che si gonfia a dismisura per una lieve ferita, coliche così forti da svenire, un raffreddore che può diventare una polmonite, un mal di denti insopportabile, e poi disturbi cardiaci, intossicazioni, infiammazioni, stress, colpi della strega. Sono le malattie tenute fino ad oggi segrete degli astronauti nello spazio. Problemi di salute inconfessabili, per orgoglio, per paura di perdere il lavoro, per evitare ritorni anticipati della missione e il rischio di essere scartati per quelle successive. O solo perché il nemico non doveva sapere. Su, in orbita, dove in assenza di gravità il sistema immunitario diventa più vulnerabile, dove lo stress legato al lavoro è fortissimo, e i rumori dei macchinari arrivano a 95 decibel, il corpo umano è una macchina super delicata. Lì, dove il buio e la nostalgia diventano insostenibili, la mente rischia di impazzire. Anche quella degli uomini di ferro come Anatolij Soloviov, un veterano dello spazio: due anni della sua vita tra le stelle grazie a 5 missioni. Anche lui confessa di aver avuto qualche problemino, sfatando la leggenda che lo indicava come «l’astronauta che non si rompe mai»: «Solo un mal di denti, ma vi assicuro che nello spazio tutto si aggrava. Fui costretto a usare da solo trapano e pasta da dentisti per rifarmi una capsula».
A svelare i retroscena delle patologie spaziali sono ora alcuni protagonisti russi di quelle missioni, che in tre occasioni furono costrette al rientro per motivi di salute di un membro dell’equipaggio. Il primo capitò nel ’75 nella stazione spaziale «Salut 5», dove uno degli astronauti, Vitalij Zholbov, subì gli effetti tossici di una fuga di combustibile, insieme a quelli psicologici di un black out elettrico. «Cominciai ad avere mal di testa - racconta al quotidiano russo Trud - a non avere più appetito, a soffrire d’insonnia, a perdere ogni capacità di lavorare». Così per la prima volta nella storia spaziale russa una missione tornò a terra, dopo 49 giorni, contro i 60 previsti. Nove anni dopo toccò alla «Salut 7»: «Dovevamo stare sei mesi, restammo solo 65 giorni a causa di un’infiammazione che non passava più», ha rivelato Vladimir Vasintin.
Ghennadi Strekalov, dopo una doccia, si ferì lievemente alla mano in corrispondenza di una cicatrice. La mano si arrossò e si gonfiò a dismisura, costringendolo a un mese di cure in orbita, con tanto di iniezioni eseguite da un collega americano. Ma c’è anche chi ha preferito tacere, come Anatolij Berezovoj: «Sapevo che una delle patologie possibili sono le coliche, ma non così forti da svenire. Avevamo già trascorso 6 mesi in orbita, ne mancava ancora uno e non volevo che rientrassimo prima. Così prima di ogni collegamento con il centro di controllo mi facevo fare un’iniezione di antidolorifici dai colleghi e mi presentavo sorridente».
A nascondere ai medici un febbrone da cavallo fu anche un altro astronauta. «I medici che ci seguivano - racconta - erano gli unici ad aver accesso a una stanza medica blindatissima dalla quale il collegamento avveniva tramite un canale cifrato», dal centro di controllo di Koroliov, la cosiddetta «città delle stelle». La segretezza veniva giustificata con la privacy degli astronauti, ma è evidente che nella corsa allo spazio tra le due grandi superpotenze, in epoca di guerra fredda, era d’obbligo non rivelare nulla delle missioni.
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