Arrendersi? Mai. Darsi per vinto? Macché, datemi retta, anche nel momento in cui si pensa di aver perso tutto, c’è sempre un modo per rifarsi. E poi sapete cosa ho capito sulla mia pelle, in quindici anni di professionismo e oltre centoquaranta vittorie? Che anche quando si tocca il fondo, si può risalire la china. Occorre umiltà, buon senso e tanta voglia di fare. È nei momenti difficili che si vede chi ha davvero i numeri.
Parlo per me. Parlo da ex campione delle due ruote, che nel ’65 vince il Tour de France, l’anno seguente la Roubaix, la Parigi-Bruxelles, il Lombardia e nel ’67 il suo primo Giro d’Italia e poi il Giro di Spagna. Credo di essere imbattibile, nessuno come me, io lanciato verso una carriera se non in discesa, ricca di poche difficoltà. Poi arriva il primo segnale: perdo malamente una cronometro al Giro di Catalogna. A battermi un certo Eddy Merckx. Il ’68, anno di tumulti, anno di grandi cambiamenti, per me, sportivamente parlando, è l’anno della presa di coscienza: sulla mia strada si pone di traverso un treno che procede a tutta velocità e spazza via ogni mio sogno e ambizione.
La data è scolpita nella mia mente: 13 settembre 1968, semitappa a cronometro, da Figueras a Rosas, 45 chilometri di impegnativi saliscendi. Io vado al via indossando la maglia biancoverde di leader. Mi basta poco per vincere: invece perdo per 38”. Perdo come quattro mesi prima al Giro d’Italia, vinto sempre dal mio amico Eddy. C’è poco da fare, il 1968 segna la svolta: per me, per lui, per il ciclismo in generale. Io appena nato, mi trovo già a vivere i titoli di coda. Mi ci vuole un anno e mezzo per capire cosa mi sta succedendo, per capire che non è colpa di nessuno se perdo, ma alla base di tutto c’è solo un fattore: Eddy Merckx è più forte del sottoscritto.
Che fare allora? Io non ho fatto altro che prendere atto di uno stato di cose. Ho metabolizzato la sconfitta, ho preso atto della forza e del talento dell’avversario, ma non mi sono dato per vinto. Ho reagito. Psicologicamente non è stato né facile né tantomeno semplice. Ma ho reagito, imparando a correre con maggiore acume tattico, con maggiore intelligenza e serenità, senza strafare e sfruttando ogni minimo errore, ogni minimo cedimento del mio avversario. Il risultato lo conoscete un po’ tutti: alla fine le mie soddisfazioni me le sono tolte. Ho vinto tanto e bene.
Certo, se non ci fosse stato Eddy forse avrei vinto di più, forse il Cannibale sarei potuto essere stato io, ma sono ugualmente felice di quello che ho ottenuto. Un Tour, tre Giri d’Italia, una Vuelta, un Mondiale, Sanremo, Lombardia, Roubaix e tutte le più importanti classiche del mondo.
Tutto questo perché non mi sono mai arreso davanti all’evidenza, non mi sono fatto sopraffare dallo sconforto, non sono stato vinto dalla paura, ma con impegno, determinazione e abnegazione mi sono risollevato ed elevato al rango anche di Eddy.
Perché l’importante nello sport e nella vita non è né vincere né tantomeno partecipare: l’importante è non arrendersi. Questo è il vero segreto di ogni sportivo e di ogni uomo che crede in quello che fa.Felice Gimondi
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