Piero Ostellino è persona caustica e curiosa, che ama la provocazione intellettuale e l’ironia, non temendo di seguire strade che lo portano ad essere in minoranza. Lo si evince anche dal suo ultimo volume, che fin dal titolo assai efficace (Lo Stato canaglia. Come la cattiva politica continua a soffocare l’Italia, Rizzoli, pagg. 252, euro 19) testimonia come ormai egli conduca una sua personale crociata contro ciò che avvelena la vita sociale. Cresciuto studiando da vicino i sistemi politici socialisti, Ostellino non è quindi solo un liberale: è anche e soprattutto uno spirito libero.
Giunto alla guida del Corriere della Sera un quarto di secolo fa, nel momento forse più difficile della storia di quel quotidiano, Ostellino ha saputo capitalizzare al meglio quell’esperienza, ritagliandosi uno spazio di grande autonomia. L’abbiamo incontrato perché ci parlasse del libro e, oltre a ciò, ci dicesse la sua opinione sulla difficile situazione che il Paese sta attraversando.
Leggendo il suo ultimo libro si trae la sensazione che oggi il suo liberalismo sia assai più anti-statalista di quello che in genere veniva professato qualche decennio fa nel nostro Paese. Le sue tesi sono più in sintonia con Locke che con John Stuart Mill, con Hayek che con Dahrendorf. È così?
«Senza dubbio. Ad esempio, a Mill preferisco Constant, perché il mio liberalismo è sempre schierato dalla parte della libertà individuale e contro ogni esaltazione del potere. Da vecchio amico ed allievo di Bruno Leoni, non mi sottrarrei neppure dal definirmi “libertario”».
Lei è un torinese nato a Venezia e cresciuto a Napoli, che ha costruito la propria carriera a Mosca e a Pechino, prima di stabilirsi a Milano. Se un tempo essere liberale significava essere «risorgimentale», oggi come vede questo legame?
«Sul piano personale, credo che essere stato lontano da Torino mi abbia aiutato ad acquisire un certo senso dell’ironia che spesso manca ai miei concittadini. In merito al Risorgimento, continuo comunque a definirmi un cavouriano, perché apprezzo quello stile filo-inglese. In definitiva, mi sento un piemontese cosmopolita e penso che la morte prematura di Cavour abbia gravemente danneggiato il Paese».
Il liberalismo americano vive in uno stretto rapporto con la tradizione religiosa, mentre a lungo in Italia quanti si dicevano liberali erano pregiudizialmente avversi al cattolicesimo, e i cattolici nemici del liberalismo. Non ha la sensazione che le cose stiano cambiando anche da noi?
«In parte è così, ma certo l’Italia è uno strano Paese, dato che tutti o quasi si dicono cattolici, ma poi non vanno in chiesa e spesso si fanno pure l’amante. Non appartengo alla schiera dei cosiddetti “laici devoti”, e però sul piano culturale mi riconosco senza dubbio nella tradizione cristiana. Non fosse altro perché, da liberale, sono grato ad una cultura che ha affermato la nozione di “persona”».
Secondo la vulgata, siamo in una crisi mondiale causata da un eccesso di liberalismo. Vittime di «troppo Stato», dovremmo ora ampliare la sfera pubblica, aumentando la regolamentazione e perfino trasferendola a livello globale. La convince tutto questo?
«Per nulla. La crisi è figlia di una politica monetaria basata sul denaro facile e su una politica abitativa demagogica (si pensi a Fannie Mae e Freddie Mac). In realtà oggi più che mai c’è bisogno di meno politica e di più mercato, ben sapendo che con la parola “mercato” si indica un aspetto fondamentale della libertà di scelta. I nemici del mercato sono, semplicemente, i nemici della libertà».
Eppure di questi tempi molti accusano i liberali di mancare di decisionismo, in quanto sono restii a spendere, tassare, a stimolare la crescita con il denaro dei contribuenti. Crede che tutti dovremmo andare a scuola da Obama e di chi, con lui, mira a «europeizzare» l’America?
«Mi auguro che gli Stati Uniti abbiano sufficienti anticorpi e che la gente si renda conto che accrescere le imposte, in particolare, significa semplicemente aumentare il potere dei politici sulla società. Qualcosa di molto negativo».
Nel volume si offre una disamina spietata dell’Italia odierna ed è messa sotto accusa la nostra Casta politica, suggerendo pure alcune vie d’uscita. Quale scelta Le sembra però più urgente di altre?
«C’è bisogno di una colossale semplificazione normativa. Il centro-destra - che forse è un poco più sensibile del centro-sinistra a tali temi - dovrebbe partire da qui, perché è assurdo ad esempio che chi dismette un’azienda per realizzare un complesso residenziale debba aspettare dieci anni. Da noi tutto è proibito meno ciò che è espressamente permesso: dovrebbe invece essere l’opposto».
Oltre ad un sistema pubblico pachidermico per dimensioni e dinamismo, l’Italia patisce il prevalere di un apparato corporativo, che in parte affonda nel Ventennio ma che nessuno - nel dopoguerra - ha voluto smantellare. Ci sono speranze?
«Uno dei guai dell’Italia è che abbiamo assistito al convergere, nella sostanza, di due tradizioni che in tempi diversi hanno egemonizzato la cultura: quella fascista e quella comunista. L’apoteosi di ciò si ha nelle regioni rosse, dove il funzionario di partito è spesso anche responsabile della cooperativa, funzionario pubblico, assessore e gioca pure un ruolo nel sistema bancario. Sembra essersi realizzato il sogno organicista di Giovanni Gentile».
Dal fumo alla droga, arrivando fino all’alimentazione, si va affermando una legislazione sempre più liberticida. Mentre Tommaso d’Aquino era consapevole che non tutti i peccati sono reati, oggi prevale l’idea che il potere debba proteggerci da noi stessi.
«Dovremmo tutti comprendere che la sfera individuale va protetta e che la legislazione non può fare di ognuno di noi una semplice cellula del “corpo sociale”. Lo spazio della politica va ridimensionato, ma perché questo avvenga bisogna riscoprire la dignità dell’individuo e il gusto di una vita vissuta a modo proprio».
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